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Rabbia e l'Orgoglio (The Rage and The Pride)
Oriana Fallaci
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Che cosa sento per i kamikaze che sono morti con loro? Nessun rispetto. Nessuna pietà. No, neanche pietà. Io che in ogni caso finisco sempre col cedere alla pietà. A me i kamikaze cioè i tipi che si suicidano per ammazzare gli altri sono sempre stati antipatici, incominciando da quelli giapponesi della Seconda Guerra Mondiale. Non li ho mai considerati Pietri Micca che per bloccar l'arrivo delle truppe nemiche danno fuoco alle polveri e saltano in aria con la cittadella, a Torino. Non li ho mai considerati soldati. E tantomeno li considero martiri o eroi, come berciando e sputando saliva il signor Arafat me li definì nel 1972. (Ossia quando lo intervistai ad Amman, luogo dove i suoi marescialli addestravano anche i terroristi della Baader-Meinhof). Li considero vanesi e basta. Vanesi che invece di cercar la gloria attraverso il cinema o la politica o lo sport la cercano nella morte propria e altrui. Una morte che invece del Premio Oscar o della poltrona ministeriale o dello scudetto gli procurerà (credono) ammirazione. E, nel caso di quelli che pregano Allah, un posto nel Paradiso di cui parla il Corano: il Paradiso dove gli eroi si scopano le Urì. Scommetto che sono vanesi anche fisicamente. Ho sotto gli occhi la fotografia dei due kamikaze di cui parlo nel mio "Insciallah": il romanzo che incomincia con la distruzione della base americana (oltre quattrocento morti) e della base francese (oltre trecentocinquanta morti) a Beirut. Se l'erano fatta scattare prima d'andar a morire, quella fotografia, e prima d'andar a morire erano stati dal barbiere. Guarda che bel taglio di capelli. Che baffi impomatati, che barbetta leccata, che basette civettuole...
Eh! Chissà come friggerebbe il signor Arafat ad ascoltarmi. Sai, tra me e lui non corre buon sangue. Non mi ha mai perdonato né le roventi differenze di opinione che avemmo durante quell'incontro né il giudizio che su di lui espressi nel mio libro "Intervista con la storia". Quanto a me, non gli ho mai perdonato nulla. Incluso il fatto che un giornalista italiano imprudentemente presentatosi a lui come "mio amico", si sia ritrovato con una rivoltella puntata contro il cuore. Ergo, non ci frequentiamo più. Peccato. Perché se lo incontrassi di nuovo, o meglio se gli concedessi udienza, glielo urlerei sul muso chi sono i martiri e gli eroi. Gli urlerei: illustre Signor Arafat, i martiri sono i passeggeri dei quattro aerei dirottati e trasformati in bombe umane. Tra di loro la bambina di quattro anni che si è disintegrata dentro la seconda torre. Illustre Signor Arafat, i martiri sono gli impiegati che lavoravano nelle due torri e al Pentagono. Illustre Signor Arafat, i martiri sono i pompieri morti per tentar di salvarli. E lo sa chi sono gli eroi? Sono i passeggeri del volo che doveva buttarsi sulla Casa Bianca e che invece si è schiantato in un bosco della Pennsylvania perché loro si son ribellati! Per loro sì che ci vorrebbe il Paradiso, illustre Signor Arafat. Il guaio è che ora fa Lei il capo di Stato ad perpetuum. Fa il monarca. Rende visita al Papa, afferma che il terrorismo non le piace, manda le condoglianze a Bush. E nella sua camaleontica abilità di smentirsi, sarebbe capace di rispondermi che ho ragione. Ma cambiamo discorso. Io sono molto ammalata, si sa, e a parlare con gli Arafat mi viene la febbre.
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