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W. Koehler (1917) ne L'Intelligenza delle Scimmie Antropoidi riferisce comediversi scimpanzé siano riusciti a risolvere vari problemi di " intelligenza" in maniera soddisfacente, utilizzando dei mezzi strumentali per raggiungere obiettivi altrimenti irraggiungibili.
Per prendere delle banane, poste troppo in alto per raggiungerle con salti e balzi, la maggior parte degli scimpanzé utilizzava bastoni, pertiche e accatastamenti di cassette su cui montare come su una scala . In particolar , uno scimpanzé di nome Sultano riuscì spesso ad andare oltre le capacità manifestate dai suoi con specifici essendo capace anche di incastrare due bastoni l'uno nell'altro per allungare la portata del braccio. Più dei suoi compagni egli comprendeva l'importanza di fabbricare strumenti ex novo o riadattarne, anche con operazioni complesse, oltre che semplicemente usare ciò che c'era di "pronto".
"Sultano cerca degli oggetti che stanno dietro una inferriata e non può raggiungerli con il braccio; allora va in giro cercando qualcosa e finisce col dirigersi ad una griglia per la pulizia delle suole che è composta da asticciole di ferro fissate in una cornice di legno; vi lavorò intorno un momento, finché riuscì a togliere una delle asticelle; con questa corse immediatamente al vero obiettivo, circa dieci metri più in là, e lo tirò verso di sé" ( Koehler, op. ct.).
L'autore fa osservare, fra l'altro, che le condotte di allontanarsi dall'obiettivo, momentaneamente e strategicamente, e di manomettere la griglia per la pulizia delle scarpe, confrontate con lo scopo finale, che è quello di raggiungere un oggetto fuori dalla portata del braccio, se prese a sé sono assurse.
Se tali condotte vengono considerate nel quadro generale del problem-solving, che esige di fornire il braccio di un prolungamento, dimostrano la capacità dell'animale di promuovere azioni che comportano operazioni mentali complesse, coordinate e logiche. Il comportamento di Sultano ci rivela che questi possiede degli schemi strategici di pensiero che non è difficile ricostruire, poiché sono chiaramente analoghi a quelli che usualmente utilizziamo noi:
1) ha constatato che gli serve qualcosa che prolunghi il braccio e che non vi è nulla a portata di mano che possa essere utilizzato a tale scopo;
2) si allontana dall'obiettivo primario che vuole raggiungere, mettendolo temporaneamente tra parentesi come per ignorarlo;
3) cerca qualcosa che serva allo scopo prefissato : allungare il braccio; prevede cosa deve cercare, prendere dal contesto ambientale o anche costruire, demolendo parzialmente il contesto stesso;
4) non trova nulla di immediatamente utilizzabile per lo scopo strumentale;
5) quindi deve fabbricarlo;
6) a portata di mano vi è una struttura che serve ad altro (pulire le scarpe), ma ha elementi disaggregabili ed utili;
7) riconosce tali elementi come funzionali al suo disegno mentale;
8) rompe la struttura e ne enuclea un elemento;
9) cambia
la direzione delle attività precedenti e ritorna verso l'obiettivo
principale con lo strumento che prolunga il braccio, lo applica a
raggiungere lo scopo.
Koehler, come gli altri gestaltisti, considera l'intelligenza soprattutto come una capacità di ridefinire un campo di gestalten prestabilite e di aggirare gli ostacoli (il contrari , per un verso, della percezione). In ogni caso l'intelligenza è quasi impossibile da definire in maniera univoca. C'è chi la considera addirittura una etichetta così astratta , estesa (o estensibile a piacere) e dai significati più disparati nell'ambito del campo fenomenico dei processi cognitivi, che infine non riesce a definire nulla di concreto. Eppure, per il linguaggio comune, anche in ambito scientifico, quando si usano le espressioni di intelligenza biologica (IB) o di intelligenza artificiale (IA), riusciamo, quanto meno, a capirci e ad intuire che nel primo caso (IB) parliamo di un quid che riassume complessi processi del cervello degli animali, e nel secondo (IA) intendiamo indicare qualcosa che avviene nei calcolatori elettronici. Giusto o sbagliato che sia, il termine intelligenza fa comodo, per lo meno come concetto su cui appoggiare i nostri pensieri, il nostro linguaggio e le nostre comunicazioni. C'è infatti chi, lungi dal considerarlo un termine troppo vago, ritiene l'intelligenza una vera e propria funzione dei processi cognitivi , definendola come una capacità attitudinale dei sistemi biologici complessi, sovraordinata per controllo, direttività gerarchica e decisionalità, rispetto a funzioni più basse soprattutto esecutive a livello motorio. Da questa idea dell'intelligenza si è spesso passati alla formulazione del concetto di mente o di anima intellettiva o di res cogitans , come di qualcosa di staccato dal corpo e/o dal cervello.
Il problema non è da poco, come sanno tutti quelli che oggi si occupano di IA, poiché si tratta di comprendere in che modo, senza uno o più homunculi annidati nel cervello, la macchina riesca a trasformare stimoli in pensieri. Non che prevedendo un homunculus si risolva o anche solo si semplifichi il problema. Insomma resta in ogni caso il fatto che un flusso più o meno continuo di attivazioni neurali produce contenuti di informazioni, immagini, pensieri. E finora nessuno sa dire come o perché. Quello che sappiamo di sicuro è che i cervelli devono raggiungere un certo numero critico di neuroni, al di sotto del quale non si attinge la soglia del pensiero intelligente, ma al massimo la trasmissione più o meno diretta di impulsi. Inoltre è necessario che il numero critico dei neuroni sia disposto con collegamenti specifici in una architettura strutturale precisa, che però sfortunatamente non conosciamo. Negli animali inferiori manca il numero critico, nei bambini o ragazzini la struttura architettonica non si è ancora completata: in entrambi i casi la cosiddetta intelligenza risulta limitata e in fieri, oppure è praticamente inesistente.
A quale livello della scala tassonomica l'evoluzione dei sistemi neurali raggiunge il numero critico?
Se usiamo come indice il metro del pensiero e linguaggio umano, potremmo dire che le scimmie antropomorfe rappresentano una soglia critica di intelligenza, date le prestazioni che sono in grado di fornire a livello simbolico.
Grosso
modo il numero critico di neuroni grigi in tali sistemi cerebrali
è di 9-10 miliardi di unità. Un discorso parallelo meriterebbero i
Cetacei, ma non è opportuno per ragioni di spazio dilungarsi nell'esame
della letteratura esistente sull'intelligenza in tale gruppo di Mammiferi.
Un esame più accurato dei Primati consentirà, con sufficiente approssimazione,
di enucleare gli argomenti di questa esposizione. Fra le Antropomorfe,
scimpanzé e gorilla sembrano proprio capaci di risolvere problemi
complessi e di usare linguaggi di tipo umano. Abbiamo già citato un
comportamento di problem-solving dello scimpanzè Sultano alle
prese con l'uso dello strumento. L'uso appropriato di strumenti non
sembra da solo l'indice più rilevante. Ciò non di meno, se si opera
una distinzione fra il semplice impiego di strumenti - che potrebbe
dipendere anche solo dall'apprendimento immediato o dalla rievocazione
di un ricordo - , e la costruzione di utensili ex-novo, che
implica un progetto su modelli mentali e una serie di atti esecutivi
in sequenze precise e ordinate, l'indicatore dell'intelligenza cambia.
Alcuni autori ritengono, infatti, che per fabbricare degli strumenti
sia necessario che il cervello possegga una struttura formale o formalizzante
profonda, una specie di grammatica innata che ogni essere umano possiede
e applica ad ogni lingua particolare. Anzi si giunge anche ad ipotizzare
che gli Ominidi ancestrali (Homo habilis, Homo erectus, Homo neanderthalensis)
abbiano evoluto parallelamente tecnologie strumentali e linguaggio
verbale, in un intreccio di rinforzi reciproci, nei quali le abilità
mentali acquisite nella fabbricazione di utensili fossero precedenti
alle tappe di strutturazione del linguaggio. Quindi dalle capacità
di astrazione e generalizzazione, già acquisite a livello evolutivo
dalle Antropomorfe, e successivamente dal genere Australopithecus,
l'evoluzione umana sarebbe progredita soprattutto per un feedback
fra mano e cervello in un quadro di facilitazione socio culturale
che, per le comunità degli Ominidi, erano condizioni indispensabili
alla competizione. In ogni caso, oggi possiamo constatare che le capacità
intellettive delle Antropomorfe sono piuttosto simili alle nostre
sia per qualità che per quantità , se considerate con la prospettiva
profonda dell'intera scala tassonomica.
Il lavoro più considerevole, a livello comparativo, che sia stato finora compiuto per indagare sia le affinità sia le differenze fra la capacità intellettive delle Antropomorfe e dell'Homo sapiens, è stato iniziato nel 1966 dai coniugi Gardner con una piccola di scimpanzé, di undici mesi di età, di nome Washoe. Washoe era nata nella foresta africana ed era stata allattata dalla propria madre biologica, vivendo allo stato selvaggio fino al momento della cattura. Il progetto di addestramento cui fu sottoposta si basava sull'insegnamento della lingua inglese tramite il sistema che si utilizza con i bambini sordomuti ( AMESLAN: American Signe Language), un linguaggio di parole-segno fondamentalmente a base gestuale composto da modulatori espressivi o mimici. Il primo addestramento è durato 51 mesi, fino al quinto anno di età dello scimpanzé, presso l'Università del Nevada, a Reno, sotto la direzione di R.A. Gardner (Gardner Gardner, 1972). Durante tale periodo di addestramento (dal 21 giugno 1966 al 30 settembre 1970) Washoe giunse a comprendere alcune centinaia di parole-segno. Le 132 parole-segno che elenchiamo di seguito costituiscono una produzione autonoma e personale operata dall'animale sui segni base che andava apprendendo (tabella 1).
Senza
sottovalutare l'apporto degli sperimentatori all'apprendimento del
linguaggio da parte di Washoe, bisogna riconoscere le grosse possibilità
e l'attitudine di tale animale ad assimilare un tipo di comunicazione
che fino a pochi anni fa si riteneva peculiare dell'uomo. Oltre a
notevoli capacità di apprendimento, memorizzazione e richiamo dei
segni simbolici appresi, per un riutilizzo significativo e corretto
dal punto di vista della comunicazione, Washoe dimostrava di possedere
delle capacità tipiche del pensiero intelligente a livello umano.
In particolare la scimmietta era in grado di astrarre dei significati
concettuali e di generalizzarli. Per esempio il segno-parola CANE
veniva usato, altrettanto bene e appropriatamente per denominare i
cani in carne e ossa cha vedeva, per fotografie di cani, pur diversi
per colore e razza, e infine per l'abbaiare di un cane che era fuori
vista. Similmente il segno-parola APRIRE, appreso originariamente
in riferimento alla maniglia della porta, venne automaticamente trasferito
da Washoe sia al rubinetto dell'acqua sia al tappo delle bottiglie.
Inoltre riferendosi ad oggetti nuovi, dei quali non le era stato insegnato
il nome, li "battezzava" con denominazioni che utilizzavano parole-segno
di altri oggetti che già conosceva, ricombinandone i significati in
maniera creativa: per esempio chiamò BANANA-VERDE un'anguria, UCCELLO-ACQUA
un cigno, e SPORCO veniva usato anche per insultare una persona.
Analogamente
Koko (Patterson e Linden,1984), una gorilla addestrata anch'essa con
l'AMESLAN, per insultare qualcuno usava le parole-segno SPORCO, GABINETTO,
STUPIDO, e una volta che era stata punita per una marachella si definì
DIAVOLO TESTARDO. Anche Koko, dovendo definire ex-novo una
melagrana spaccata, la indicò con altri termini linguistici che conosceva,
coniando un nome appropriato, almeno sul piano descrittivo: GRANTURCO
ROSSO BERE.
Nella definizione dell'anguria da parte di Washoe come BANANA VERDE e della melagrana da parte di Koko come GRANTURCO ROSSO BERE c'è forse qualcosa di più dell'astrazione e della generalizzazione concettuali. Vi si nota chiaramente una capacità fantasiosa e creativa non casuale, poiché noi abbiamo solo riferito degli esempi che non sono affatto isolati.
Tra 1972 e il 1976 i Gardner proseguirono il lavoro sperimentale di insegnamento dell'AMESLAM, aggiungendo a Washoe quattro altri scimpanzé neonati: Moja, Peli, Tatu e Dar, i quali iniziarono ad un'età più precoce di Washoe ad apprendere le parole-segno dei sordomuti. Dopo cinque mesi Moja, Peli e Tatu possedevano un vocabolario di 10 parole-segno; a 2 anni di età tutti e quattro giunsero a possedere 50 parole-segno. Nonostante il grande rigore scientifico usato dai Gardner e dai loro collaboratori nel condurre gli esperimenti, vi furono critiche e manifestazioni di scetticismo sui risultati dei loro progetti. In particolare qualcuno sosteneva che gli scimpanzé non facevano altro che buone imitazioni di segnali mimico-gestuali, senza comprendere il significato fini in fondo e quindi senza produrre linguaggio di tipo umano e infine senza trasmettere realmente delle informazioni grammaticalmente esatte e sintatticamente organizzate. Ma altri sperimentatori, guidati da Premack, stavano già dimostrando, ancora una volta con una femmina di scimpanzé di nome Sarah, che l'animale riusciva a organizzare simboli secondo un ordine grammaticale preciso, come descriveremo più avanti. In ogni caso anche se scarse, le voci critiche sulle capacità degli scimpanzé di manipolare appropriatamente il linguaggio umano continuavano a farsi sentire.
Fouts, Hirsch e Fouts (1982) nel 1979 iniziarono la sperimentazione di un nuovo progetto che intendeva verificare la possibilità della trasmissione culturale di parole-segno da scimpanzé a scimpanzé, senza l'intervento di insegnanti umani. Fu così fatto adottare da Washoe uno scimpanzé maschio di 10 mesi, di nome Loulis: cinque mesi dopo (all'età di 15 mesi) Loulis aveva imparato ad usare 2 parole-segno, apprese da Washoe; e a 36 mesi di età usava almeno 28 pareole-segno differenti. Loulis intanto si era integrato nel gruppo "familiare" degli scimpanzé del progetto Gardener e, come avviene anche allo stato selvaggio, essendo questi animali molto socievoli, sviluppò usi ed abitudini del gruppo non solo per la comunicazione linguistica, ma anche per il comportamento sociale in genere.
"L'88% delle conversazioni fra scimpanzé avvenivano in tre contesti: interazione sociale
( 39%), riassicurazioni (29%) e gioco (20%). E' inoltre interessante notare che solo il 5% delle parole-segno scambiate fra scimpanzé ebbe luogo nel contesto dell'alimentazione."(Fouts, Fouts & Bodamer, 1986)
Come tutti gli altri Primati evoluti, umani e non umani, anche gli scimpanzé vivono in gruppi sociali strutturali gerarchicamente, dove i livelli di età hanno una grande importanza, per cui non stupisce che Loulis riservasse gran parte della sua comunicazione al coetaneo e compagno di giochi Dar (55%), contro il 23% a Tatu (femmina), il 17% a Washoe (madre adottiva) e il 4% a Moja (altra femmina). Sarah, una femmina di scimpanzé di 6 anni e mezzo, fu addestrata a comunicare con la scrittura, utilizzando dei particolari geroglifici artificiali costruiti ad hoc daPremack (Premack e Premack, 1973), riportati in figura 1 la giovane scimpanzé Sarah arrivò a leggere e scrivere 130 parole. Questo esperimento fu intrapreso dal gruppo di ricerca di Premarck, perché molti studiosi sospettavano che il sistema del linguaggio dei sordomuti, usato con Washoe, non garantisse sufficientemente sulla raggiunta conoscenza da parte dell'animale delle strutture del linguaggio umano. Perciò a Sarah si insegnò a scrivere dei simboli astratti (i glifi artificiali) e si insistette sulla costruzione della frase, con soggetto, verbo e predicato al loro posto; sull'analisi logica dei concetti espressi, per esempio, utilizzando ampiamente i concetti di uguale e diseguale; poi si introdusse nelle frasi che l'animale doveva comporre le strutture linguistiche dell'interrogativo e del condizionale; e infine si insegnò a Sarah a rendersi consapevole che usava dei simboli (i glifi), che rappresentavano gli oggetti, ma che non erano gli oggetti stessi. L'animale apprese quindi il concetto "nome di". Per esempio il nome "mela" era rappresentato da un triangolo di plastica blu e "banana" da un quadrato di colore rosa. Lo scimpanzé usava correttamente il triangolo (per mela) e il quadrato per (banana), ma non confondeva i triangoli e i quadrati con i frutti: se le veniva chiesto di prendere una mela, prendeva l'oggetto mela, il frutto; se le veniva chiesto di scrivere "mela" prendeva il triangolo blu e lo collocava al giusto posto (quello del nome mela). Così per tutti gli altri simboli e per tutte le strutture logico linguistiche insegnatele, l'animale, pian piano (come nelle nostre scuole), le acquisiva e una volta apprese non commetteva più errori, usandole con sempre maggiore sicurezza.
Analizziamo ora in maggior dettaglio alcuni passaggi del processo di apprendimento del linguaggio umano da parte di Sarah. Innanzitutto gli addestratori incominciarono con l'insegnare a Sarah i nomi dei frutti (mela e banana), facendo leva sull'appetenza dell'animale per tali frutti. Poi si cominciò a collocare il quadrato rosa a portata di mano dell'animale e la banana fuori tiro, condizionando Sarah a porre il quadrato rosa magnetizzato su una lavagna magnetica per ottenere il frutto. Ogni volta che l'animale collocava il quadrato rosa o il triangolo blu sulla lavagna otteneva una banana o una mela. Lo stesso procedimento fu usato per altri frutti. Poi si introdusse il verbo "dare" in insieme alle parole che indicavano i frutti, cosicché Sarah cominciò a scrivere, per esempio, "dare banane" o "dare mela", eccetera.
Figura
1 - Esempi del "sistema di scrittura" utilizzato da Premack e
Premack, (1973) per comunicare con la giovane scimpanzé Sarah. (modificato)
Si introdussero, quindi, altri verbi come "lavare" o "tagliare" per controllare da un lato se l'animale aveva imparato e quindi comprendeva l'esatto significato del segno "dare", e dall'altro per ampliare il vocabolario con espressioni (i verbi) che stavano per delle azioni. Sarah apprese il significato dei glifi dei verbi, e per esempio, lavava il frutto che le veniva chiesto di lavare. Inoltre, ora poteva apprendere ad ordinare le frasi in modo corretto, mettendo in fila, quindi usando un ordine di priorità e di successione, le parole: "dare banana Sarah" è diverso che "dare banana Mary". In quest'ultimo caso la banana la mangiava Mary. La scimpanzé imparò presto a non commettere simili errori "grammaticali". Proseguendone nell'addestramento, le furono insegnati i concetti di uguale e di diverso, ponendo come si vede in Figura 1 il glifo (la parola) "uguale" e "diverso" fra due oggetti differenti. Poi, utilizzando i concetti e le parole " uguale e diverso" le fu insegnata l'interrogazione, ponendo un glifo (che significava il punto interrogativo) fra coppie di oggetti differenti e uguali insieme alla parola "uguale" e "diverso" e chiedendo all'animale di ordinare la frase in modo corretto (es.: turacciolo di sughero uguale tappino di metallo?). E così di seguito sino a giungere a forme di frase molto complesse e a dimostrare in definitiva la sua capacità di generalizzare, di compiere transfert logici e di possedere appieno la capacità di simbolizzare, né più né meno come un bambino.
Le due frasi rappresentate in Figura 1 dette in un italiano corretto e scorrevole suonerebbero così.
1. "Se Sarah prende la mela, (allora) Mary da il cioccolato a Sarah".
2. "Se
Sarah prende la banana, (allora) Mary non da il cioccolato a Sarah".
Washoe, Sarah e Koko dimostrano che, il livello di organizzazione nervosa del cervello degli scimpanzé e dei gorilla, si è raggiunta quella soglia critica di transfert di apprendimento che è una caratteristica dell'intelligenza umana, che si fatica ancora senza successo a dare un sistema neurale artificiale. Il cervello biologico, appena dotato di numero critico di neuroni, apprende, ma soprattutto manipola ciò che ha appreso in maniera automatica, spontanea e senza particolari istruzioni finalizzate ad hoc.
Un'altra caratteristica piuttosto importante dell'intelligenza dei Primati, che nell'uomo raggiunge l'apice ma che si manifesta già chiaramente nei suoi rudimentali fondamenti di base presso i macachi, consiste nella capacità di trasmettere degli elementi culturali da individuo ad individuo, soprattutto entro il quadro sociale dei gruppi organizzati dei conspecifici. In particolare, ciò può avvenire con frequenza fra madre e figlio, fra conspecifici appartenenti allo stesso livello gerarchico di un gruppo, fra i livelli più alti delle strutture gerarchiche e quelli più bassi, nel verso dall'alto in basso come avviene per ogni altro comportamento di interesse sociale per il gruppo comunitario. I Primati, infatti, hanno elaborato, avendone ereditato per via filogenetica le caratteristiche di base degli altri Mammiferi, un sistema di rapporti interindividuali che costituisce un vero modello socioculturale.
In tal
senso, un'altra differenza rilevante che fenomenologicamente si può
osservare fra IB e IA è data dal fatto che il cervello biologico,
a differenza del "cervello" elettronico, vive in società coi suoi
simili: è praticamente immerso fin dalla nascita in un bagno continuo
di rapporti stretti con una figura materna o caretaker (madre
biologica o adottiva poco importa) la cui rilevanza per il successivo
sviluppo intellettivo è determinante; con figure familiari contrapposte
a figure estranee; successivamente con figure di coetanei, che sono
pressoché simultaneamente amici e/o concorrenti-avversari; con la
figura immaginaria del gruppo sociale di appartenenza e dei gruppi
esterni (out groups). Tutto ciò, insieme al numero critico
dei neuroni e alla loro disposizione specifica e altro, fanno l'intelligenza
biologica.
Un modello grossolano di un cervello sulla soglia critica del pensiero dovrebbe risolvere alle seguenti condizioni minimali:
1. Un numero critico di unità neurali disposte in una struttura architettonica a strati gerarchicamente differenziati e con collegamenti, all'interno degli strati, il più possibile in parallelo e il meno possibile in serie.
2. Varie memorie di dati, formali e programmati, collegati in una rete da definire volta per volta, secondo i risultati che si vogliono ottenere dall'operare del sistema o dall'addestramento dello stesso a situazioni ecologiche mutevoli.
3. Un'unità
centrale, capace di leggere e connettere i dati "grammaticalmente",
continuamente immersa in interazioni col significato dei dati stessi.
Al proposito può essere interessante considerare l'analisi di Jaynes (1976) sulla nascita della coscienza critica nell'Homo sapiens. Una delle ipotesi che l'Autore propone, riguardo l'evoluzione della "mente" quindi del cervello, concerne il passaggio del sistema da una condizione di coscienza eterodiretta (che Jaynes chiama mente bicamerale), con percezione del proprio Io come esecutore di decisioni prese altrove e comunque fuori dall'Io agente, ad una condizione di autocoscienza.
L'ipotesi di Janyes conduce ad un possibile schema evolutivo dei sistemi mentali (o dello psichismo) del tipo seguente:
1. automa da sistemi istintivi e di apprendimento non coordinati in un "Io" consapevole (LIVELLO ANIMALE PREUMANO)
2. automa governato da un "Io" consapevole delle proprie opinioni, ma ignorante della propria autonomia soggettiva. Come se un homunculus decidesse per l'Io macchina esecutore (LIVELLO UMANO PROTOSTORICO)
3. automa
governato da un Io autocosciente che comprende la propria autonomia
(LIVELLO UMANO ATTUALE).
In un tale schema gli autonomi artificiali, costruiti finora dall'uomo (computers o "cervelli" elettronici) non raggiungono neppure il primo livello, in quanto non superano livelli più o meno complessi di tipo riflesso, mentre anche semplici cervelli biologici producono effetti di integrazione informatica che si collocano oltre il meccanismo riflesso e seriale. Un comportamento istintivo già dimostra una complessità di integrazioni che quanto meno non è solo "lineare". Ciononostante il livello di tali prestazioni comportamentali, nell'ambito della fenomenologia biologica, è ancora molto elementare. Anche quando l'istinto viene integrato con abbondanti quantità di quote di apprendimento e l'automa mostra di potersi adattare in maniera piuttosto plastica, i livelli di integrazione informazione sono non consci.
Persino nell'uomo attuale, che è l'automa biologico più avanzato, la percezione cosciente di tali processi, quando c'è, è piuttosto imperfetta, laboriosa e confusa. E' possibile, pertanto, parlare di metacognizione nel senso che non solo pensiamo ai pensieri degli altri, ma riflettiamo sui nostri stessi pensieri. In effetti molti filosofi hanno voluto vedere nella riflessione l'essenza della coscienza, o per lo meno dell'autocoscienza (caratteristica umana). L'autocoscienza riflessiva è sicuramente un elemento critico di ciò che consideriamo maturo, raffinato profondo, perspicace, eccetera; va da sé che un sistema che non è in grado di avere metacognizioni non può riflettere. Non siamo ovviamente consapevoli di tutto quello che passa nella nostra testa e, tantomeno, siamo capaci di esprimere la maggiorparte dei "pensieri" che affastellano la nostra mente. In effetti solo una piccola parte dei nostri contenuti e delle nostre elaborazioni mentali è accessibile a noi stessi e agli altri: per la precisione la parte di cui siamo coscienti. E' possibile, allora, supporre l'esistenza di una speciale componente di memoria, chiamata M, in cui è contenuto questo particolare frammento dei nostri pensieri. M funge principalmente da intermediario, o da zona cuscinetto, fra la percezione, espressione verbale e il resto della mente: risoluzione di problemi, memoria a lungo termine, inferenza al buon senso. Se si realizzasse un automa del genere sarebbe risolto ogni dubbio sulle possibilità per i sistemi meccanici complessi di produrre intelligenza e quindi di organizzare gli apprendimenti in pensieri diversi dalle sequenze date dallo stesso apprendimento o dai dati mneminici. Il problema del "ponte" fra il corpo e la mente potrebbero diventare del tutto comprensibile. Per ora non abbiamo compiuto sostanziali progressi rispetto alle impostazioni filosofiche di La Mattrie e Condillac. Anzi comprendiamo ancora così poco e male gli automatismi del pensiero che ci risulta ancora comoda la finzione antiquata del deus ex machina (homunculus, Io o coscienza che dir si voglia): l'anima si estrinseca rispetto all'automa robotico corporeo. E anche tale situazione, che denuncia lo status perlomeno incerto e in evoluzione del pensiero umano, potrebbe essere un argomento valido per la tesi di fondo di Jaynes. Insomma la simulazione artificiale dell'intelligenza biologica che potrebbe essere un primo passo verso la soluzione del problema o quanto meno un indice privilegiato che si è sulla strada buona, non è ancora a portata di mano.
Dal punto di vista della psicologia comparata sembra si possa, fra l'altro, concludere che qualsiasi sistema nervoso biologico, anche di dimensioni modeste, possa essere qualitativamente superiore a qualsiasi sistema neurale artificiale, anche delle massime dimensioni. Come vedremo nella terza parte di questo lavoro l'Octopus, un invertebrato mollusco con un sistema nervoso che non ha nulla di simile al piano di organizzazione dei Vertebrati, è in grado di compiere performance comportamentali che rivelano capacità di apprendimento, comprensione nel campo di azione e quindi di "intelligenza" ben oltre qualsiasi possibilità per le attuali intelligenze artificiali.
Scrivendo
queste pagine ci accorgiamo anche che lo stesso termine intelligenza
è scientificamente molto fluido e che lo si usa per poter comunicare
a livello linguistico più che per definire precisamente un contenuto
concettuale che non sia il riferimento al senso comune dell'uomo della
strada. Nessuno specialista è, allo stato delle conoscenze , in grado
di dire molto di più esatto, se non in senso scolastico, dell'uomo
della strada sui fenomeni etichettati con le parole intelligenza,
mente, pensiero. Tutto ciò è certamente imbarazzante per lo studioso
di tali fenomeni, ma è un fatto che il sistema fenomenologico costituito
dai comportamenti nervoso-mentali si è rivelato coriaceo all'assalto
dell'indagine analitica del passato con i suoi riduzionismi, così
come permane impenetrabile nel presente alla ricerca etologica di
certi cognitivisti. Ciononostante si progredisce per lo meno nella
comprensione di aspetti parziali, che portano poi sempre più a considerare
che la chiave ottimale di comprensione finale deve essere il più possibile
onnicomprensiva e che l'eccessiva frammentazione del fenomeno comportamentale
può essere fuorviante. La strada comunemente battuta finora dal comportamento
del sistema nervoso centrale dell'Homo sapiens per conoscere
se stesso è stata quella di frazionare lo stesso comportamento sistemico
in parti, considerate come sub unità parzialmente indipendenti l'una
dall'altra: l'intelligenza, la memoria, l'apprendimento, eccetera.
Molte poche energie sono state dedicate all'osservazione del metodo
che il sistema usa per indagare se stesso. Innanzitutto poco si sa
sul perché il sistema ha la necessità di iniziare con il semplificare,
lo scomporre, il ridurre ad unum, per scoprire solo in un secondo
momento che è essenziale alla comprensione ricomporre in pezzi. Forse
il sistema non potrà mai comprendere se stesso? Come se si trattasse
di una legge fisica analoga a quella della impenetrabilità dei corpi,
ci fosse mai una impenetrabilità della coscienza alla coscienza? In
altre parole la funzione dello intelligere troverebbe il suo
estremo limite proprio nel fenomeno dell'intelligenza.
L'indagine a tappeto, con metodi scientifici empirici e non più solo filosofici, comincia con la psicologia contemporanea e subito si presenta la difficoltà di definire chiaramente e univocamente lo stesso fenomeno che si intende studiare. Nel 1911 il Journal of Educational Psychology pubblicò le relazioni di un simposio sull'intelligenza da cui riportiamo le definizioni dei diversi psicologi che parteciparono ai lavori.
Secondo Terman l'intelligenza è "l'abilità di pensare astrattamente"; per Woordrow l'intelligenza è "la capacità di acquistare capacità"; per Thorndike l'intelligenza consiste nel"potere di dare buone risposte dal punto di vista della verità o dei fatti"; Vernon ha raggruppato diversi punti di vista in tre categorie principali: biologiche, psicologiche, operazionali; Freeman le divide in quelle che pongono l'accento sul potere di adattamento all'ambiente, quelle che mettono l'accento sulla capacità di apprendere e quelle, che infine, pongono l'accento sulla capacità di usare il pensiero astratto.
La prima categoria, come rivela Vernon è molto generica. Infatti molte persone di cui non si può negare l'eccezionale intelligenza, Pascal, Kafka ecc., sono stati drammaticamente incapaci di adattarsi al loro ambiente fisico e sociale. Non prendendo in considerazione la categoria biologica perché generale e radicale restano le altre due categorie di definizioni psicologiche e operazionali dell'intelligenza, e cioè l'intelligenza è ciò che i test misurano, ma, come è stato osservato, forse è di una crudezza che la rende inutilizzabile; anche se viene modificata e raffinata, resta essenzialmente tautologica.
L'intelligenza è, quindi, un aggregato di capacità, o la capacità globale dell'individuo, di agire intenzionalmente, di pensare razionalmente e di operare in modo efficace sul (e nel) suo ambiente. Alcuni psicologi per sfuggire alle difficoltà che comporta una definizione unitaria dell'intelligenza, parlano di due forme dell'intelligenza: di intelligenza A e B o di una forma fluida e di una forma cristallizzata. Per intelligenza A fluida si intende la potenzialità genetica dei singoli individui, per intelligenza B o cristallizzata quella che risulta dall'esperienza, dall'apprendimento e dai fattori ambientali:
Beck dichiara (1980):
"L'uso dei termini intelligenza e capacità cognitiva può avere in sé un qualcosa di provocatorio, perché quanto conosciamo su queste capacità è molto impreciso nondimeno esiste una convergenza di vedute fra gli studiosi sulla natura dell'intelligenza, e sono state acquisite prove nette sul fatto che non esiste un nesso unico ed ordinato fra comportamento di uso di arnesi e intelligenza. Il comportamento sociale e quello alimentare sono probabilmente molto più importanti nell'evoluzione dell'intelligenza e continuano ad esserlo anche nel mantenimento delle capacità intellettive. La capacità, che alcuni taxa possiedono, di uso intelligente di arnesi, è senza alcun dubbio pleiotropica, in quanto risulta dalla selezione di capacità cognitive sottostanti a complessi comportamentali sociali e di sussistenza che non implicano affatto l'uso di utensili. Naturalmente la fitness progressivamente crescente, derivata da un fenotipo intelligente di uso di arnesi, favorirebbe la selezione di determinanti genetici della sottostante capacità intellettiva".
In ogni caso, del complesso di attitudini che chiamiamo intelligenza, ciò che abbiamo sotto gli occhi e che possiamo conoscere e controllare sono i comportamenti degli individui rispetto ai compiti loro assegnati. Certamente una delle diatribe più rilevanti è stata quella che ha diviso gli studiosi fra innatisti o genetisti da un lato e ambientalisti dall'altro sulla natura originaria dell'intelligenza umana: se sia una funzione innata o acquisita.
Gli innatisti sostenevano che l'intelligenza è una funzione già formata e non una pura capacità, nel senso cioè che essa non è suscettibile di grossi cambiamenti e di eventuali aumenti dovuti all'ambiente, ma che dipende piuttosto da fattori prettamente ereditari e genetici. Gli ambientalisti erano invece convinti che l'intelligenza fosse una capacità che si può apprendere (o meglio che si può solo apprendere) e sulla quale si può intervenire tramite una educazione ed un addestramento adeguato: l'intelligenza sarebbe fornita dall'esterno dell'organismo, che sarebbe unicamente condizionato da stimolazioni ambientali. I genetisti ritengono di avere a loro disposizione molte ricerche sperimentali che difendono e dimostrano le loro asserzioni. Da queste ricerche le migliori valutazioni propongono un rapporto di 4 a 1 per, rispettivamente, l'importanza dei contributi dell'eredità e dell'ambiente; in altre parole i fattori genetici sono responsabili dell'80% circa della variazione globale che riscontriamo nel Q.I. nell'ambito di una data popolazione come quella che vive oggi in Inghilterra e negli USA ( Eysenck, 1970).
Questi studi sono stati condotti sia con individui appartenenti alla stessa famiglia ed educati nello stesso ambiente, sia con individui appartenenti alle stesse famiglie ed allevati separatamente, o con soggetti allevati nei brefotrofi dei quali non si conoscono i genitori o parenti, ma dei quali è possibile conoscere e controllare in un certo modo l'ambiente. Molti altri studi sono stati condotti anche con i negri americani per cui è noto come i genetisti, e in particolare Jensen, siano stati ritenuti razzisti per aver considerato i negri inferiori ai bianchi per quanto riguarda i Q.I.; Jensen (1969) ritiene questa accusa falsa e infondata:
"Ho
sempre sostenuto che bisogna trattare le persone come individui, tenendo
conto per ognuno dei suoi particolari meriti e caratteristiche, e
sono
sempre stato contrario a trattare le persone esclusivamente in base
alla
loro razza, colore, nazionalità e ambiente sociale".
In altre parole egli sostiene che i suoi studi non hanno nessuna intenzione di rilevare le differenze tra le razze, ma solo di indagare quelle che sono le variazioni genetiche del Q.I. tra individui diversi. A sostegno dei suoi studi ne esistono altri che si sono occupati delle differenze esistenti nel campo intellettivo tra bianchi e negri americani.
Per quanto riguarda i loro risultati i genetisti sostengono che nessuna importanza debba essere attribuita a determinati fattori, come per esempio la razza dell'esaminatore che potrebbe influenzare negativamente o positivamente i negri sottoposti ai test oppure la motivazione dei soggetti. Essi ritengono infatti che i negri, come i bianchi siano abbastanza motivati a far bene questi test e che quindi non corrisponde a verità il fatto che essi siano già convinti a priori di non riuscire, oppure che si sentono in una posizione inferiore e poco privilegiata rispetto ai bianchi. Le differenze dipenderebbero dunque in massima parte da fattori propriamente genetici, di carattere innato e individuale. Per questo motivo i genetisti affermano che bisognerebbe prendere in seria considerazione tali fattori che, studiati in modo adeguato, possono portare a risultati migliori soprattutto nell'ambito didattico-educativo. I genetisti, infatti, ritengono che non è giusto costringere tutti i bambini in uno schema didattico che non tiene conto delle loro differenze intellettive, nello stesso modo in cui non è giusto dare ai malati la stessa medicina e costringere tutti in un letto di Procuste creato con criteri che non tengono presenti le variazioni genetiche nelle capacità intellettive. Essi ritengono che non è affatto "discriminazione" il voler elaborare programmi didattici differenziati per bambini con schemi di capacità diverse e quindi, ponendo dei grossi ostacoli a questa realizzazione, non si fa altro che impedire agli stessi di ottenere dei miglioramenti nei limiti della loro possibilità in difesa di questi programmi essi criticano quelli portati avanti dagli ambientalisti, e li ritengono solo un vero e proprio spreco di grosse somme finanziarie. Essi considerano dei fallimenti parecchie iniziative degli ambientalisti, soprattutto il famoso programma " Head Start" con il quale si cercò di migliorare il Q.I. di bambini provenienti da famiglie di scarse condizioni socio-economiche tramite il cosiddetto arricchimento culturale dell'ambiente.
Dal canto loro gli ambientalisti sono d'accordo che questa iniziativa sia stata effettivamente un fallimento, sia da un punto di vista teorico che pratico, dal momento che non vennero presi in considerazione numerosi fattori che sono invece alla base di nuovi programmi rivelatisi abbastanza efficaci per l'addestramento delle capacità intellettive dei bambini e degli adulti. Gli ambientalisti confidano molto in questi programmi integrativi perché sono convinti che l'intelligenza come tutte le altre capacità umane può essere insegnata ed esercitata tramite metodi appropriati.
L'intelligenza dunque non è determinata geneticamente, ma è qualcosa che si pone in stretta relazione con l'ambiente in cui viviamo.
Tra i
numerosi esperimenti per l'addestramento dell'intelligenza possiamo
ricordare il programma di R. Klaus e S. Gray, noto soprattutto come
"Early Training Project", cioè programma di addestramento prococe.
Entrambi questi psicologi partirono dalla considerazione che molti
bambini provenienti dai quartieri più poveri si trovavano molto svantaggiati
nelle scuole elementari. Infatti l'ambiente in cui questi bambini
vivono non è affatto stimolante e contribuisce scarsamente alla loro
formazione intellettuale. Essi notarono anche questi bambini hanno
un linguaggio molto ritardato dovuto al ridotto scambio verbale che
si verifica nel loro ambiente. Le madri soprattutto comunicano con
i loro figli tramite un "codice limitato" ed i bambini sono costretti
ad afferrare da un'espressione del viso, da un'intonazione particolare
della voce e dai vari gesti il significato globale di una situazione,
di una frase. Naturalmente una siffatta comunicazione non è molto
efficace e non aiuta il bambino a costruire passo per passo il proprio
linguaggio. L'"Early Training Project" si propone dunque di migliorare
questo stato di cose usando criteri e procedimenti appositi. Hanno
preso parte a questa ricerca 19 bambini negri di tre anni ed età provenienti
da Nashville e dintorni. Lo scopo è quello di addestrare fin da un'età
precoce le attività intellettive di questi bambini e vedere poi i
loro risultati e il loro risultato nelle scuole elementare. I soggetti
sono stati sottoposti a corsi estivi di dieci settimane per tre estate
consecutive. Sono stati inoltre impiegati molti insegnanti qualificati
in modo che tutti i bambini fossero seguiti meglio e con più attenzione.
Ogni 5 bambini c'era a disposizione un solo insegnante. Si è cercato
innanzitutto di addestrare i bambini ad una adeguata formazione dei
concetti insegnando loro soprattutto la classificazione, generalizzazione
e riclassificazione percettiva, l'abilità numerica e di linguaggio.
Lo stesso materiale a disposizione, quello tipico di qualsiasi scuola
materna, è stato usato con lo scopo specifico di facilitare l'incremento
delle facoltà intellettive dei bambini. Si è cercato, per esempio,
di insegnare al bambino a chiedere l'uso di un giocattolo, oppure
si davano dei cubi ai bambini per insegnare loro il nome, il concetto
di posizione, il numero. Si è anche cercato di sviluppare le attitudini
più utili per l'apprendimento scolastico, come per esempio la perseveranza,
la motivazione al successo, l'interesse per il materiale scolastico.
In base a questo addestramento tutti i bambini hanno ottenuti dei
risultati significativi ed il loro Q.I. è aumentato sensibilmente
rispetto ad altri bambini delle loro stesse condizioni socio-economiche
che non avevano preso parte all'esperimento. I risultati più soddisfacenti
si sono avuti quando questi stessi soggetti hanno cominciato a frequentare
le scuole elementari. Gli altri programmi di addestramento che hanno
immediatamente seguito l'"Early Training Project" hanno anche essi
ottenuto dei grossi risultati come per esempio quelli ideati da M.
Blank e F. Solomon, C. Bereiter ed S. Engelmann. Questi programmi
però, contrariamente al primo, hanno esteso l'addestramento non solo
all'estate, ma a tutto l'anno scolastico ed inoltre hanno cercato
di indirizzare maggiore attenzione sulle materie scolastiche come
contesto per poter insegnare la capacità di pensiero. Il programma
di Blank e Solmon prevede persino in insegnamento individuale, nel
senso cioè che ogni bambino può avere a sua disposizione un solo insegnante.
Questi studiosi hanno addestrato i bambini a pensare adeguatamente
il linguaggio. Durante le lezioni si è cercato soprattutto di tenerli
sempre attivi facendo loro domande e nello stesso tempo abituandoli
a costruire le risposte. I bambini svantaggiati hanno sempre la tendenza
a comportarsi in questo modo, che impedisce loro di pensare correttamente
prima di dare la risposta. La giusta risposta deve essere invece preceduta
da un attento schema di pensiero analitico. Anche questi programmi
come il primo, hanno permesso ai bambini di migliorare sensibilmente
il proprio Q.I.
La controversia sull'ereditarietà del Q.I. si impose al pubblico nel 1969 quando A. Jensen pubblicò un lungo articolo sulla Harvard Educational Review. In tale articolo Jensen giungeva a tre conclusioni principali:
a) il 70-80% delle variazioni del Q.I. tra i gruppi si spiega con un tipo di varianza genotipica (ereditaria);
b) la differenza media del Q.I. trovata fra i bianchi e negri si può attribuire in gran parte al genotipo;
c) i
programmi di recupero non avevano cambiato in modo significativo il
Q.I. e le prestazioni di rendimento.
Grande scalpore e gran parte delle critiche contro Jensen riguardano la seconda conclusione, mentre l'affermazione più importante (la prima) ha ricevuto meno attenzione. Riguardo alla terza conclusione abbiamo già detto qualcosa e vi torneremo sopra più oltre. I dati di base usati da Jensen per stabilire la proporzione di stabilità nel Q.I. , che si può spiegare con la varianza genotipica, si riferiscono a due filoni di ricerche:
a) la correlazione dei punteggi al Q.I. tra gemelle monozigote allevati in ambienti diversi (0.75);
b) la correlazione tra genitori adottivi e bambini adottati (intorno allo 0.23).
Innanzitutto
bisogna rilevare che certamente il metodo delle correlazioni non può
non mettere in evidenza le somiglianze fra gemelli che esistono almeno
per il fattore (A) dell'intelligenza e idem fra genitori e figli biologici.
Però sono stati commessi errori metodologici nella misura in cui altri
fattori rilevanti che variano col Q.I. e sono condivisi dai gemelli
separati,saranno riflessi nella correlazione tra il Q.I. di gemelli
monozigoti separati. Questi fattori, una volta controllati, ridurrebbero
la quantità di variabilità del Q.I. che si può attribuire al genotipo.
1. Fattore dato dalla "Somiglianza dell'ambiente prenatale": Jensen dice che le differenze nell'ambiente prenatale producono gran parte delle differenze nei valori medi dei Q.I. di gemelli monozigoti, sia che vengano allevati separatamente o insieme. Tuttavia bisogna tenere presente che i gemelli non esperimentano o fanno esperienza solamente differenti in ambiente prenatale, ma anche esperienze simili che Jensen non tiene in dovuto conto. Per esempio nell'ambiente prenatale i gemelli possono anche non consumare la stessa quantità di nutrimento, ma sono esposti ad una composizione simile di sostanze nutritive e di molecole psicochimiche uguali. Già questi fatti renderebbero conto della correlazione rilevata nei filotipi che è pari allo 0.75. Quindi la quantità di variazione attribuita al genotipo viene a ridursi.
2.
Fattore dell'età dei gemelli al momento della separazione. L'età
durante la quale i gemelli monozigoti studiati venivano separati è
specificata solo per uno dei quattro studi usati da Jensen. In questo
esempio, che Jensen considera il "migliore", la separazione dei gemelli
avveniva alla nascita o entro i primi sei mesi. Questa è una delle
tre ricerche in cui Jensen menziona un tipo di separazione precoce.
Degli altri due studi, in uno si legge che l'età media al momento
della separazione era di 13 mesi e sei giorni, e nell'altro la media
era di 12 mesi e 5 giorni. Se questa età media della separazione è
rappresentativa anche della terza ricerca (separazione precoce), e
se il quarto esempio si basava sulla separazione ad un'età più avanzata
, (la fonte non viene specificata da Jensen), allora possiamo dire
che l'età dei gemelli al momento della separazione può essere stato
un fattore di confusione per i risultati di Jensen.
3.
Fattore dell'ambiente adottivo dei gemelli monozigoti. Se si usa
lo status socio-economico come indice dell'ambiente, ci sono ben poche
prove che questo fattore possa essere una fonte di confusione. In
uno degli studi usati da Jensen c'è una correlazione leggermente negativa
fra i livelli socio-economici e l'ambiente adottivo dei gemelli. Sebbene
manchino i dati per altre tre ricerche, la possibilità che simili
ambienti socio-economici abbiano confuso la relazione appare irrilevante
e improbabile.
La misura
in cui si può generalizzare un dato statistico viene limitata alla
popolazione di cui questo dato è rappresentativo. Il metodo che in
genere assicura la "rappresentatività" richiede una selezione randomizzata
di soggetti della popolazione all'interno della quale si devono generalizzare
i dati e, in questo caso, una assegnazione randomizzata alle varie
condizioni ambientali che si trovano nella stessa popolazione. Jensen
intese generalizzare i suoi dati alla popolazione bianca degli USA;
tuttavia si deve notare che la ricerca su cui si appoggia l'analisi
di Jensen è costituita da un campione non randomizzato e quindi non
rappresentativo. Anche l'assegnazione dei gemelli separati dalle famiglie
biologiche non è negli studi sviluppati da Jensen sufficientemente
controllata. In particolare si può rilevare che una serie di fattori
dell'ambiente adottivo sono sfuggiti ad un adeguato controllo: lo
status socioeconomico, le dimensioni delle famiglie, l'ordine di nascita
dei bambini nelle famiglie e la stabilità emotiva delle stesse, tutti
i fattori che incidono sul Q. I. Quindi si può concludere che non
è stato dimostrato che vi siano prove sperimentali che l'80% dei fattori
che costituiscono il Q.I. siano attribuibili al genotipo. Da questo
si deduce che le conclusioni di Jensen sono inaccettabili. Ad ogni
modo nelle pagine che seguono passeremo in rassegna le principali
ricerche su tale argomento.
E. M.
Elderton (1923) riferisce che Karl Pearson ha trovato una correlazione
di 0.54 alla Scala di intelligenza dello Stanford-Binet fra 216 coppie
di fratelli che erano stati separati dai loro genitori in età precoce
ed allevati in un Orfanotrofio della California. Sia Pearson che Elderton
supposero che tale correlazione, che risulta essere molto simile a
quella usualmente trovata fra fratelli cresciuti presso le rispettive
famiglie biologiche (la quale è circa di 0.52) potesse costituire
una buona dimostrazione a favore della teoria o meglio dell'ipotesi
genetista dello sviluppo cognitivo. In realtà, il confronto delle
due correlazioni (0.54 fra fratelli cresciuti lontano dai genitori
biologici e 0.52 fra fratelli cresciuti presso le loro famiglie di
origine ) non ci dice proprio niente sulle influenze ambientali che
hanno concorso allo sviluppo intellettivo dei bambini del primo e
del secondo gruppo, ma solo che la varianza fra coppie di fratelli
può essere di ampiezza simile anche per soggetti che crescano in ambienti
diversi, che però non sappiano quanto diversi fra loro, né in quali
caratteristiche si differenzino rispettivamente. La conclusione di
Pearson e Elderton è del tutto gratuita, nella misura in cui va molto
oltre il reale ambito fenomenico che loro dati hanno descritto e analizzato.
S.V.S.
Theis (1924) ha pubblicato i primi dati riferendosi alle abilità mentali
di bambini adottati, correlate ai livelli socio-economici e culturali
dei loro genitori adottivi. L'autrice giunse alla conclusione che
"i risultati sulle capacità sembrano in qualche modo favorire di
più l'aspetto ereditario che quello ambientale", però senza poter
distinguere i fattori ereditari da quelli dell'ambiente neonatale,
precedente alla separazione dei bambini dai loro genitori biologici.
F.N. Freeman, K.J. Holzinger e B. Mitchell (1928) presentano dei risultati di Q.I., misurato con la scala Stanford-Binet del 1916, di 74 bambini che furono sottoposti a un test a 8 anni di età e di nuovo a 12 anni . Gli autori trovarono un incremento medio di 2.5 punti ( da 91.2 a 93.7) in quei bambini adottati da famiglie socioculturalmente superiori a quelle di origine. Musinger trova da ridire, perdendosi in una serie di cavillosità metodologiche (più da avvocato che da scienziato), e dimentica il fatto lampante (anche "galileianamente") che i bambini cresciuti in un ambiente più favorevole, nonostante la loro provenienza, sono migliorati nel Q.I. rispetto a quelli che non hanno potuto usufruire di tale vantaggio. Poichè il Q.I. non misura né i fattori genetici soli, né la sola influenza ambientale, bensì le possibilità e le opportunità che gli uni offrono all'altra di esprimersi funzionalmente, risulta evidente, ogni oltre ragionevole dubbio metodologico, che in questo studio i 2 punti e mezzo di incremento (per quanto poco siano), sono attribuiti in toto alle condizioni socioculturali migliori e non al patrimonio genetico. Infatti, se il Q.I. fosse una espressione diretta del patrimonio genetico degli individui, in questo caso non avremmo avuto modificazioni di sorta, così come non si ha la modificazione del colore degli occhi se si cambia condizione socio-economica.
B. Burks
(1939) fu la prima sperimentatrice che ha confrontato e analizzato
le correlazioni di Q.I. in un grosso campione costituito da un gruppo
formato da genitori biologici e i loro figli e da un altro gruppo
formato invece da genitori adottivi e i relativi bambini adottati.
L'autrice ha seguito un disegno sperimentale così concepito: stimare
come effetto dei fattori ambientali sull'intelligenza il rapporto
fra genitori adottivi e bambini adottati, come effetto congiunto dell'eredità
e dell'ambiente il rapporto fra genitori biologici e i loro figli.
Tale campione era composto da 214 bambini bianchi adottati ad una
età media di tre mesi e testati dai 5 ai 14 anni e da 105 bambini
che vivevano nelle loro famiglie biologiche, omologabili ai primi
per l'età media, la distribuzione del sesso, la mancata frequenza
di asilo nido e scuole materne, la residenza, l'occupazione del padre
e la razza. Sia ai genitori che ai bambini di entrambi i gruppi fu
applicato il test Stanford-Binet nella forma del 1916. Il principale
risultato di questa ricerca è costituito da una correlazioni di 0.20
per l'età mentale fra i genitori adottivi e i bambini da loro adottati;
e di una correlazione di 0.52 per l'età mentale fra i genitori biologici
e i loro figli. Però non ci dice se vi furono incrementi differenziati
fra i due gruppi, rapportabili a diversità negli ambienti in cui sono
cresciuti i bambini. La Burks stessa, in mancanza di dati più solidi
su progressi e regressi nel Q.I., se la cava dicendo che le sue conclusioni,
contrarie a quelle dello studio di Freeman, Holzinger e Mitchell,
sarebbero da attribuire ad una selezione nella scelta dei bambini
adottati avvenuta per il campione dei tre autori citati.
D.B.
Lithauer e O. Klineberg (1933) misurarono con il test Stanford-Binet
il Q.I. di 120 bambini di età compresa fra i 3 e i 13 anni, istituzionalizzati
in un orfanotrofio di New York, quindi misurarono il Q.I. degli stessi
bambini un anno e mezzo più tardi, considerando la differenza che
risultò fra quelli che furono adottati e quelli che rimasero nell'istituto.
La media iniziale al Q.I. dei 120 bambini era di 82.29 e la media
del gruppo, dopo che avvennero le adozioni, risultò di 88.25. Gli
autori conclusero che questo guadagno medio di 5.96 punti al
Q.I. dimostrava che un miglioramento dell'ambiente può aumentare in
modo significativo la misura del Q.I. allo Stanford-Binet.
A.M. Leahy (1933) considerò un campione di 194 bambini adottati che avevano le seguenti caratteristiche a) erano stati adottati prima dei sei mesi di età; b) di origine bianca non ebrea e nord-europea; c) avevano tra i 5 e i 14 anni al tempo del test; d) erano stati allevati in comunità di mille o più persone; e) erano stati legalmente adottati da coppie sposate; f) erano stati adottati da genitori bianchi non ebrei e di estrazione nord europea. Leahy inoltre formò un gruppo di controllo di 194 bambini che vivevano coi loro genitori naturali e che erano omologabili con il campione sperimentale per quanto riguardava: a) il sesso; b) l'età; c) l'occupazione del padre; d) l'istruzione del padre; e)l'istruzione della madre; f) la razza, la religione e la zona di provenienza dei genitori; g) la dimensione della comunità di appartenenza. La Leahy raccolse insieme ai suoi collaboratori le storie familiari dei genitori rilevandone gli aspetti socio-culturali; applicò, inoltre, lo Stanford-Binet a tutti i bambini raccogliendo così i loro Q.I., il reattivo Otis, unito al subtest del vocabolario dello Stanford-Binet, ai genitori. I principali risultati della ricerca della Leahy furono che il punteggio ottenuto ai reattivi dai genitori adottivi si correlava con i punteggi ottenuti dai bambini adottati nella misura di 0.18 mentre i punteggi ottenuti dai genitori naturali e dai loro bambini avevano una correlazione di 0.60. La Leahy trovò inoltre una correlazione di 0.24 al test del Vocabolario dello Stanford-Binet tra genitori adottivi e bambini adottati contro una correlazione di 0.56 allo stesso reattivo tra i punteggi di genitori e bambini del gruppo di controllo. Inoltre il livello di istruzione dei genitori adottivi prevedeva una correlazione di 0.20 con i Q.I. dei bambini adottati, mentre la stessa correlazione del gruppo di controllo era di 0.54. Ribadiamo che tali risultati dimostrano semplicemente l'esistenza del genotipo, che fra figli e genitori biologici può al massimo spartire la sua influenza con l'ambiente al 50% rispetto ad un comportamento come quello dell'apprendimento culturale e sociale. La ricerca della Leahy conferma con qualche margine di variazione i risultati ottenuti da Burks sopra citati. Infatti, i risultati di queste due ricerche mostrano che le correlazioni fra i punteggi ai reattivi dei genitori naturali e dei loro bambini erano di 0.52 per Burks e di 0.60 per la Leahy, mentre le stesse correlazioni fra bambini adottati e i genitori adottivi erano per Burks do 0.20 e per Leahy di 0.18.
La ricerca
successiva sullo sviluppo del Q.I. di bambini adottati è stata pubblicata
da E.L. Schott nel 1937 e riguardava i possibili effetti dell'adozione
su Q.I. di un gruppo di bambini. Schott usò la scala Stanford-Binet
per misurare l'intelligenza di 100 bambini e di 100 bambine la cui
età andava da 18 mesi a 17 anni con l'età media di 5.6. Questi soggetti
erano sotto la tutela del Tribunale dei minorenni in quanto abbandonati
o maltrattati dai loro genitori naturali. I risultati di Schott dimostrano
che vi è un incremento globale e generale nel Q.I. dei bambini che
furono sistemati presso le famiglie adottive di condizioni superiori
a quelle di provenienza. L'ambiente adottivo, favorendo i bambini
sia dal punto di vista intellettivo che a livello emozionale, produceva
la possibilità di sfruttare da parte del bambino tutte le sue capacità
a pieno ritmo, anche se il solito 50% circa di somiglianza (genetica)
coi propri genitori biologici permaneva.
Snygg (1938) analizzò un gruppo di 312 bambini di un orfanotrofio canadese di Toronto, i quali venivano poi man mano adottati, alcuni sotto l'anno di età altri a 2 o 3 anni. I dati sul Q.I. mostrano che non vi erano grosse correlazioni (0.13) fra i bambini e le loro madri biologiche, diversamente da ciò che trovarono la Leahy e la Burks che ebbero rispettivamente uno 0.60 e uno 0.52 fra bambini e le rispettive madri biologiche. Tali risultati ci inducono a dubitare del metodo delle correlazioni, e in ogni caso a restare saldi all'evidenza dei fatti che dimostrano che il Q.I. è ampiamente modificabile (anche per ammissione dei genetisti) e che sempre viene incrementato laddove c'è un addestramento adeguato.
J. Wells
e G. Arthur nel 1939 pubblicarono uno studio su un gruppo di 100 bambini
con genitori deboli mentali(Q.I. Medio circa 75) i cui figli vivevano
presso di loro e da loro venivano allevati e su di un gruppo di 100
bambini anch'essi con genitori deboli mentali (Q.I. medio circa 75),
bambini che vivevano ed erano allevati da genitori adottivi. Gli autori
misurarono il Q.I. dei bambini che vivevano presso i loro genitori
biologici ad una età media di 6 anni e 7 mesi e li misurarono all'età
di 12 anni. Quindi misurarono anche i Q.I. dei bambini adottivi che
venivano allevati lontano dai loro genitori di origine, deboli mentali,
all'età di 5 anni e 6 mesi mediamente e li misurarono all'età di 10
anni. Anche per una serie di altri parametri (esclusione di bambini
epilettici o con altre tare specifiche) i due gruppi erano omologabili.
Questi autori trovarono un incremento medio di 1.4 punti di Q.I. nei
bambini adottati, fra il primo e il secondo prelievo, e un decremento
di 6.6 punti in quelli che vivevano con i loro genitori biologici.
Ciò dimostra, fra l'altro, che l'abilità mentale non solo si può migliorare,
ma può essere peggiorata, come a volte capita nelle nostre scuole.
Certamente se gli autori avessero fatto delle correlazioni avrebbero
trovato una maggiore contiguità fra i genitori deboli mentali e i
loro figli biologici e molto minore fra i bambini adottati e i genitori
di adozione. Perciò questo non è il metodo più sicuro per determinare
l'apporto genetico, che pure c'è in relazione al fenotipo comportamentale.
G. Hildreth (1940) comparò i punteggi del Q.I. di due gruppi di bambini che frequentavano la Lincoln School della Columbia University (New York). Il primo gruppo comprendeva 54 bambini adottati di entrambi i sessi; il secondo gruppo era costituito da 321 bambini che vivevano con i loro genitori biologici. I due gruppi erano omologabili per età, sesso e status socioeconomico dei genitori ( professionisti, con istruzione universitaria e con altri punteggi al Q.I.). Il Q.I. medio dei 54 bambini adottati era il 103.3, il Q.I. medio dei bambini che vivevano coi loro genitori era di 120.3. Questi dati dimostrano ancora una volta che l'ambiente è un fattore determinante nella composizione del Q.I., infatti i bambini che sono sempre vissuti sia in una ambiente familiare che scolastico ad alto contenuto culturale hanno dimostrato punteggi medi di 120. Quelli adottati da genitori pure di ambiente ad alto contenuto culturale hanno raggiunto punteggi fino a 103 di media, superando così non solo il proprio svantaggio iniziale ma pure la media generale che è di 100.
Speer
(1940) ha raccolto i punteggi al Q.I. di 184 bambini abbandonati dai
genitori biologici e in seguito adottati a varie e differenti età
cronologiche. L'autore trovò che il Q.I. medio dei soggetti del suo
campione decresceva insieme al ritardo del momento di adozione: cioè
in ragione inversa alla precocità dell'intervento di inculturazione
delle famiglie adottive. Infatti il Q.I. medio dei bambini adottati
al di sotto dei due anni di età era di 100.3, mentre il Q.I. medio
dei bambini adottati oltre i 12 anni di età risultava di 66.9. Questo
dimostrava l'importanza dell'intervento precoce. Speer trovò, inoltre,
per tutti i bambini che furono ritestati dopo l'inserimento nelle
famiglie adottive un incremento medio di ben 5.1 punti del Q.I.
J. Laymann
(1942) determinò il q.i. da un campione di 150 bambini adottati dai
sei ai dieci anni in due sessioni separate. E' da notare che la meggior
parte dei genitori biologici di questi bambini erano di basso status
socioeconomico e il Tribunale Minorile era stato costretto ad intervenire
sottraendo i piccoli alla insufficiente tutela e alle lacunose cure
dei familiari biologici. L'autore trovò un incremento medio di Q.I.
nei soggetti dopo l'adozione da 97.1 (primo prelievo) a 99.9 (secondo
prelievo).
Concludiamo questa scorsa storica dei lavori sul Q.I. sottolineando un dato che ci sembra fondamentale al di là di ogni cavillo tecnico: si assiste ad un sicuro incremento dei Q.I. (quantitativamente più o meno rilevante secondo i casi) laddove vi è una maggiore e migliore acculturazione; per cui ci sembra insostenibile attribuire al genotipo la determinazione di quel tanto di capacità che serve all'apprendimento scolastico, per quanto vi siano anche differenze individuali nei soggetti, dovute ai rispettivi bagagli ereditari. Nell'ambito delle richieste di inculturazione scolastica la posizione dei genetisti rischia solo di scoraggiare gli insegnanti a perseverare con insistenza, pazienza e con tecniche semplici per raggiungere il fine che è proprio della scuola di massa e dell'obbligo: far apprendere cioè, ciò che è alla reale portata di tutti e che costituisce la base dell'istruzione. Le scuole superiori (media superiore e Università) selezioneranno i più o meno dotati in tutte o in alcune discipline: in tal modo giocando in ogni settore dell'istruzione il proprio ruolo, si contribuirà sia a livello pratico che a livello teorico a chiarire meglio il rapporto fra genotipo e ambiente nelle manifestazioni comportamentali che costituisce ancor oggi un problema non completamente chiarito a livello scientifico. Ci preme sottolineare che tale problema , come viene oggi posto nell'ambito della ricerca, può creare degli equivoci nei non addetti ai lavori e anche negli addetti, innanzittutto perché quando si tratta di fenotipo comportamentale si includono sullo stesso piano tanti o tutti i tipi di comportamento, dall'apprendimento comunemente inteso all'apprendimento per impriting, dall'apprendimento negli animali inferiori all'apprendimento nell'uomo civilizzato, dall'apprendimento studiato in laboratorio a quello osservato in condizioni non strettamente controllate e controllabili e facendo erroneamente di tutto questo una serie di fenomeni totalmente omogenei. Inoltre a volte capita di applicare elaborati procedimenti metodologici e statistici perdendo di vista il riscontro empirico che s'impone con i fatti. Infine si sono verificati degli errori logici di interpretazione dei dati, trasponendoli semplicemente da un livello di discorso ad un altro del tutto estraneo. Per esempio, il fatto che molte ricerche abbiano trovato un alto coefficiente di correlazione fra gemelli monozigoti e più basso fra fratelli non gemelli o fra consanguinei, oppure altro fra genitori e figli e basso fra genitori adottivi e figli adottati, sembra del tutto scontato e addirittura banale. Però se questo giustifica la conclusione di alcuni autori ( i genetisti) che il genotipo determini le attitudini ad apprendere più di quanto non lo faccia l'ambiente, non è tuttavia sufficiente a determinare la performance dei rendimenti intellettivi che è una variabile fortemente condizionata dal fattore tempo, dal fattore numero di prove e dal fattore qualità dell'insegnamento. Pertanto non è necessario essere nati geni o comunque avere una ascendenza di parenti intelligenti (come i genetisti indurrebbero a concludere) per apprendere le nozioni elementari di cultura generale che vengono impartite e richieste nella scuola dell'obbligo in linea di massima, ma anche il particolare per apprendere più che dignitosamente alcune professioni. Così come non è necessario essere di razza bianca per imparare l'inglese o qualsiasi altra lingua europea. Questo è un fatto che tutti possono constatare. Allo stesso modo vi sarà necessariamente un alto coefficiente di correlazione fra i Q.I. di genitori deboli mentali e i loro figli che vivono con loro e che usufruiscono di una comunicazione scarsa sia qualitativamente che quantitativamente. Però questo andamento del fenomeno cambia se i figli dei deboli mentali o comunque i bambini in qualche modo svantaggiati vengono adottati precocemente e allevati in famiglie e in scuole ad alto contenuto culturale sia qualitativo che quantitativo.
Le attitudini, le facoltà e le capacità, che possono poi essere più o meno impiegate in attività di apprendimento, possono essere paragonate ad un condensatore elettrico e l'apprendimento alla qualità di cariche che possono caricare o meno il condensatore: un condensatore per esempio, di capacità 100 può essere caricato anche con solo 30 cariche, per cui darà performance di 30 al massimo; mentre un condensatore più modesto con solo 60 di capacità, caricato però completamente, potrà fornire prestazioni anche doppie del primo. Insomma qui si vuole sottolineare la differenza che sul piano della ricerca analitica è bene mantenere fra il complesso di fenomeni che si etichettano come intelligenza e quelli che si etichettano come apprendimento. Pur senza dimenticare che sono aspetti di un'unica realtà comportamentale è opportuno considerare che l'apprendimento è una funzione piuttosto elementare molto diffusa della materia vivente, mentre l'intelligenza compare solo a livelli di organizzazione complessa degli organismi.