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A questo punto possiamo affrontare in modo più completo anche la questione del significato nel linguaggio. In questo capitolo, analizzeremo le principali ipotesi sulla lettura e sul modo in cui sono immagazzinate le informazioni e confronteremo i modelli e le prove in loro favore con quello che proponiamo in alternativa.
Abbiamo visto che la percezione può essere considerato un comportamento che permette di mettersi in relazione con un oggetto in modo veloce, consistente nel selezionare alcuni elementi che provocano, in chi percepisce, l'attivazione di tutto ciò che può avere a che fare con quell'oggetto, in relazione anche alla situazione globale del soggetto: diverso è il modo di vedere il cibo se si è appena mangiato, o se si ha fame. Il linguaggio è una modalità particolare di percezione in cui gli elementi che ci rendono coscienti di una certa situazione sono i segni linguistici. Analizzando le cose in questo modo risultano evidenti gli elementi di continuità tra la percezione del linguaggio e la percezione di una determinata situazione. In entrambi i casi abbiamo a che fare con un comportamento sviluppatosi culturalmente, nel caso del linguaggio è evidente, nel caso della percezione può essere meno scontato, ma vi sono molti studi che dimostrano la natura culturalmente determinata della realtà che percepiamo e come la percezione sia strettamente intrecciata al linguaggio, così che l'una dipende dall'altra cosa. Nell'esplorare visivamente un ambiente si cercano alcuni elementi che fanno da segnale sugli oggetti presenti e le loro relazioni, in base alle esigenze del momento, si approfondisce l'esame di alcuni elementi, piuttosto che di altri, ci si sofferma maggiormente sull'analisi di porzioni di realtà che non risultano immediatamente chiari. E' sia con la mente, che con tutto il corpo, come abbiamo visto, che si organizza da questi elementi un quadro completo, adatto alle motivazioni, che chi percepisce sente attive in quel momento. Allo stesso modo, quando gli elementi sono colti dal linguaggio, si colgono gli indizi che permettono di formarsi un quadro della situazione, andando a modificare l'attivazione del proprio corpo in funzione della risposta che sembra più opportuna per quella situazione. Sia il modo in cui si è sviluppato il linguaggio culturalmente, sia l'apprendimento che fa di esso ogni individuo, concorrono a renderlo il più naturale possibile, cioè più simile al modo in cui si percepisce senza la sua mediazione.
Un tentativo di esplorare lo stretto legame tra percezione e linguaggio è stato compiuto da Clark, Carpenter & Just (1973) e da esso emerge chiaramente la stretta dipendenza di entrambi dal corpo, come il passaggio dall'una all'altro debba passare per il corpo.
La ricerca è basata su di una serie di confronti tra frasi e figure. Ai soggetti veniva richiesto di valutare se le frasi che descrivevano le figure erano vere o false, venivano misurati i tempi di risposta in modo da inferire quali codifiche devono essere tradotte, richiedendo un tempo maggiore, e quali invece corrispondono direttamente a quella che è stata adottata spontaneamente dal soggetto. Si parte dall'ovvia constatazione che per confrontare una frase con una figura, si deve, ad un certo punto, rappresentare sia la figura che la frase in un formato compatibile. (Secondo il modello che proponiamo questo formato è la rappresentazione nel corpo, il significato, l'attivazione, la preparazione alla risposta). E' l'interpretazione, non la diretta percezione che deve essere comparata con la frase. Gli Autori fanno l'ipotesi che i percetti siano codificati in un formato astratto e proposizionale. La maggior parte, forse tutti, gli eventi possono essere interpretati in molti modi anche molto diversi. L'esempio più conosciuto è quello del cubo di Necker, un altro è quello del topo-papera di Wittgenstein, o il vaso-faccia di Rubin. Tali differenze nell'interpretazione, naturalmente, determinano il modo in cui l'osservatore descrive l'esperienza percettiva. Ciò implica che il linguaggio dovrebbe permettere di rappresentare queste diverse sfumature e quindi che vi siano strutture della lingua che rispecchino le diverse interpretazioni. In effetti troviamo nel linguaggio queste espressioni, possiamo dire che un oggetto è sopra un altro, oppure che quest'ultimo è sotto il primo, possiamo dire che in A c'è B, oppure che B è dentro A. In quest'articolo gli Autori hanno esaminato le proprietà linguistiche di queste espressioni alternative, suggerendo come potrebbero portare ad interpretazioni differenti di un evento percettivo ed esaminando prove psicologiche decisive riguardo a questo punto di vista.
Clark, Carpenter & Just partono dalla verifica di tre ipotesi da esaminare con frasi negative, locative, comparative e termini dimensionali:
IPOTESI A: Si preferiscono alcune codifiche o interpretazioni ad altre; queste preferenze derivano da una concezione dello spazio percettivo rigidamente organizzata a priori, comune a tutti gli uomini indipendentemente dalla lingua.
IPOTESI B: Se una frase che descrive una figura è presentata prima di questa, essa normalmente determina l'interpretazione e quindi la codifica iniziale di tale figura.
IPOTESI C: In alcuni casi, le proprietà percettive intrinseche alla figura determinano l'interpretazione e la codifica, anche quando la figura è stata preceduta da una frase con un'interpretazione diversa.
Dalle prove con le negative, si dimostra che, come deducibile dalla prima ipotesi sono preferibili alcune codifiche ad altre, infatti, come regola generale, codifichiamo le figure in termini positivi. Ciò è stato ampiamente dimostrato anche in lavori precedenti.
Per quanto riguarda la seconda ipotesi hanno mostrato che affermare: "la minoranza dei puntini è rossa", o "pochi puntini sono rossi", porta a due codifiche diverse, a due interpretazioni diverse, che comportano delle strategie visive diverse. Infatti nel primo caso si pone l'accento su tale gruppo e saranno questi puntini ad essere cercati, mentre nel secondo caso si pone l'accento sul gruppo più grande e saranno questi ad essere cercati. In un'altra prova (Carpenter, & Just, 1972) hanno dimostrato che non solo minority e few inducono differenti codificazioni visive, ma anche che portano a un modo diverso di osservare di scandagliare la figura. Infatti i loro soggetti guardavano prima al gruppo più grande quando la frase conteneva, molti, pochi o maggioranza, ma guardava al più piccolo quando la frase conteneva minoranza. Per quanto ci riguarda ciò è una diretta osservazione della corrispondenza tra significato e preattivazione, o risposta vera e propria. L'interpretazione diversa si traduceva, tra l'altro, in un modo diverso di guardare, di scandagliare, di mettersi in relazione con l'oggetto osservato.
Le figure sono normalmente codificate in termini positivi anche quando precedute da frasi negative, l'unica eccezione che hanno trovato è che una persona può essere indotta a codificare in termini negativi se "sa" che la figura rappresenta una situazione negativa.
Con le locative hanno messo in evidenza anche come le regole generali per codificare eventi percettivi derivano fondamentalmente dalle caratteristiche dell'apparato percettivo umano.
Questa assunzione, che è fondamentale nel nostro modello, è tutto sommato logica e difficilmente contestabile, ma può essere utile trovare conferme in altri lavori. Ciò è stato fatto dettagliatamente in Clark (1971). L'apparato percettivo umano è costituito in certi modi abbastanza specifici. Lo spazio ha una dimensione verticale determinata dalla forza di gravità ed un piano di riferimento terrestre, entrambi sono indipendenti da chi percepisce. Lo stesso percettore è un altro punto di riferimento invariante nel suo spazio percettivo. Inoltre la parte superiore è positiva nella dimensione verticale e la parte avanti all'osservatore è positiva rispetto alla dimensione davanti-dietro. Ciò deriva proprio dal fatto che questa è la parte più immediatamente percepibile. Se di due oggetti in una figura, uno è percettivamente prevalente, esso normalmente serve come punto di riferimento e l'altro oggetto sarà codificato relativamente a questo. La discussione sulle locative gira tutta intorno ai punti di riferimento. Per prima cosa l'apparato percettivo umano definisce due punti di riferimento (il livello del terreno e l'osservatore stesso) questi normalmente determinano la codifica che ognuno fa di un evento. Ma alcune figure contengono oggetti che possono essere essi stessi dei punti di riferimento, essi possono prevalere anche sui punti di riferimento naturali, o al punto di riferimento suggerito da una frase che precede la presentazione della figura.
Le comparative sono per molti aspetti come le locative. La maggior parte degli aggettivi comparativi va a coppia come alto e basso, in modo tale che uno è più naturale, prevalente sull'altro. Tra l'altro, in questo caso, il prevalente implica una misura in direzione positiva (alto, verso l'alto) l'altro in direzione negativa (verso il basso). Inoltre il prevalente di ogni coppia può essere utilizzato anche per indicare la dimensione (lontano, profondo, largo, grande ecc.). Questa proprietà, secondo gli Autori, può spiegare perché i codici sia percettivo che linguistico riflettono le particolarità dell'apparato percettivo umano. La principale caratteristica è che esso può percepire estensione fisica, in ogni caso la dimensione prevalente misura da zero in avanti. Si preferisce codificare comparazioni percettive in forma positiva rispetto alla dimensione sottostante. Cioè a seconda di quello che, per entrambi i termini della comparazione è più adatto, si trova più adatto un aggettivo piuttosto che un altro. Per dei ricchi è più opportuno fare una comparazione dicendo che uno è più ricco dell'altro per dei poveri è più opportuno dire che uno è più povero dell'altro. Ciò è un'altra prova del fatto che le coppie di comparativi non sono equivalenti ed allo stesso modo i termini della comparazione non hanno lo stesso status, ma uno è termine di riferimento per l'altro. Il termine di riferimento è quello più prossimo, più vicino al punto di origine e ciò fa si che si nomini prima l'altro in riferimento a questo: A è più lungo di B (che è il punto di riferimento ed è più vicino al punto di origine). C'è una vera e propria operazione di scansione della dimensione, così che quando si incontra il primo si è già trovata la risposta, ciò spiega anche perché i tempi di reazione a domande di questo tipo crescono all'allontanarsi del riferimento dall'origine, ma non con l'allontanarsi dell'altro termine. Ciò rientra con naturalezza nella nostra ipotesi che tutto viene riferito al corpo, che il significato viene rappresentato, emerge dalla preparazione ad un'azione, in questi casi sembra che si simuli una vera e propria azione, ma in realtà ci si preattiva nelle maniere indicate dalla frase. Così quando leggiamo che una certo oggetto è "più alto" già gli occhi si preparano, nella mente, a cercare l'altro più in basso. Il concetto di "più in alto" è codificato proprio da un'aspettativa di trovare qualcosa più in una certa direzione (che è quella standard per quella dimensione); è un movimento che va dal punto di riferimento in quella direzione; è un annuncio del movimento che sarà necessario fare per trovare questo secondo oggetto, partendo dal primo. Se si deve rispondere ad una prova di valutazione, questa azione viene veramente compiuta sulla figura e se corrisponde al movimento che ci si aspettava di dover compiere la risposta è che la frase era veritiera.
Da questa discussione possiamo ricavare che la comprensione avviene ad un livello che è intermedio tra quello linguistico e quello che riguarda la percezione dei vari sensi implicati nelle frasi. Il quadro che ne risulta, seppure compatibile, non è direttamente traducibile in termini di rilevazione del significato come qualcosa immagazzinato da qualche parte. Più direttamente invece, ne deriva una concezione in termini di coinvolgimento di tutto l'organismo.
Dato un particolare evento percettivo, è più facile applicare determinate interpretazioni piuttosto che altre. Le differenze sono quelle trovate nelle condizioni di applicazione degli aggettivi. Variando le figure, allora, è possibile variare il grado di concordanza con le condizioni di applicazione di un aggettivo.
Una seconda ipotesi aveva a che fare con la prevalenza di una coppia di aggettivi in altrimenti identiche condizioni di applicazione. L'ipotesi prevede che è più facile dare giudizi riguardo a quello di più grande estensione piuttosto che a quello di più piccola.
Da esperimenti in cui si analizzano le preferenze per aggettivi indicanti lunghezza e profondità possiamo trarre alcune conclusioni. Più profondo e più lungo, presuppongono differenti qualità degli oggetti e delle situazioni in cui si applicano. I soggetti tentano di codificare differenti aspetti della figura a seconda che sia ritenuta profonda o alta. Inoltre alcune figure sono più facilmente considerate alte, mentre altre profonde. In particolare se si fa risaltare il piano che sta sotto i due oggetti è più facile che si codifichi come altezza, mentre enfatizzando l'interno di una scatola tridimensionale si favorisce una codifica in termini di profondità.
In generale possiamo concludere che i giudizi comparativi di una dimensione spaziale sono fatti relativamente ad una particolare interpretazione di quella dimensione: più strettamente le caratteristiche della figura concordano con le condizioni di applicazione dell'aggettivo sottostante il confronto, più velocemente le due figure possono essere interpretate e confrontate.
Una domanda che suggerisce una certa dimensione porta in genere a confrontare relativamente ad essa (ad esempio la grandezza), ma una volta che questa scelta è stata fatta, è la forma dell'oggetto che determina il codice esatto e la relativa difficoltà. Così i soggetti trovano più facile codificare gli stessi due rettangoli in una dimensione o nell'altra a seconda della loro forma. Può accadere anche che preferiscano codificare il primo rispetto al secondo in una dimensione e viceversa nell'altra. Il processo di codifica, quindi, è piuttosto complicato, infatti anche se le frasi precedenti concorrono a selezionare la dimensione di codifica, è l'oggetto stesso che ne determina la forma esatta.
E' emerso che ci sono similitudini tra le rappresentazioni percettive e linguistiche che possono derivare da una organizzazione di base dello spazio. Questa concezione, che noi abbiamo considerato modellata principalmente dalle caratteristiche del nostro apparato percettivo, sembra riflessa direttamente nelle proprietà linguistiche dei termini spaziali (in Inglese in questo lavoro, ma non mancano in italiano, si veda soprattutto Flores D'arcais 1966 e 1970) e nel modo in cui li elaboriamo. Le asimmetrie nella comodità di uso di coppie di aggettivi derivano in qualche modo complesso dal fatto che le persone codificano estensione, non mancanza di estensione, lungo dimensioni percettive, un processo che è intrinseco all'apparato percettivo umano.
Vi sono immagini che funzionano e che possono anche essere fonte di nuove intuizioni, ma ad un certo punto l'immagine può essere anche un freno alla comprensione reale di un fenomeno, così l'immagine della memoria di lavoro come un officina in cui vengono messe delle cose per un pò mentre ci si lavora sopra, può limitare la sua vera comprensione. In cosa consiste in realtà questa memoria di lavoro? Saranno dei collegamenti che si fanno tra concetti e che vengono tenuti insieme attivamente, con sistemi che richiedono un certo dispendio di energia e che tendono a spegnersi non appena si smette di tenerli attivamente in funzione. Ma i concetti stessi cosa sono? Se si immagina, come stiamo facendo noi, che questi concetti sono dei particolari legami tra ciò che viene dall'ambiente (o ciò che si è lasciato venire dall'ambiente) ed il proprio corpo, una preattivazione di determinati muscoli, ghiandole ecc. abbiamo che è una specie di accesso alla risposta che per forza di cose dev'essere limitato dai limiti fisici di risposta che può avere il corpo. Ora la risposta può anche essere verbale a sua volta e tutto questo lavorio si svolgerà implicando le zone del cervello deputate al controllo motorio e percettivo del linguaggio. Ma, contemporaneamente, saranno implicate anche le regioni che controllano dal punto di vista motorio e sensorio tutto il corpo. In questo modo abbiamo una attivazione di tutto ciò che, date le particolari circostanze, deve essere riattivato, il pensiero, la comprensione è un continuo rimandare l'azione complessiva, ma anche un agire continuo, sommesso, dato dalla preattivazione, con tanto di effetti delle proprie azioni ricavati dai propri ricordi, così ad esempio le regioni occipitali possono riattivare delle immagini visive associate al contatto con quel particolare oggetto, in quella particolare modalità, data da tutto il discorso che si sta seguendo.
Non dobbiamo così ipotizzare un controllo centrale che è un'immagine tratta dall'analogia fatta dall'HIP, ma che non si saprebbe dove collocare, né conciliare con alcuni dati. Avremo invece tutta una serie di controlli reciproci sui quali le parole riescono ad agire in quanto parte potente di questi controlli reciproci. Senza la parola una certa condizione, determina una certa azione, la condizione scatenante è data da una grande quantità di fattori, che si integrano, controllano, inibendosi e potenziandosi. L'apprendimento successivo ad un'azione è dato anche dalle coloriture di piacere-dispiacere che si sono ottenute in seguito all'azione, nei vari aspetti della propria azione. La parola entra anch'essa nella modifica dei rapporti tra le varie componenti, modifica il modo stesso in cui ci si rapporta alle cose, perché diventa il modo privilegiato di catalogazione delle esperienze, due fenomeni sono equivalenti se vi si può applicare la stessa parola. Senza la parola, il collegamento base che possiamo ipotizzare tra situazioni equivalenti è che richiedano la stessa risposta. In effetti la parola è solo un caso particolare di ciò perché è una risposta anch'essa, o almeno parte della risposta.
Ritornando di nuovo al concetto di significato vediamo che in questo modo appare un pò meno nebuloso, quello che definiamo significato e che ci appare quasi una proprietà della parola, una sua caratteristica che deve essergli applicata, in questa prospettiva è invece qualcosa di continuo, che si modifica continuamente in conseguenza di ogni nuovo elemento che viene ad influenzare colui che sta leggendo.
L'approccio cognitivo considera fasi distinte della percezione il riconoscimento delle caratteristiche fisiche delle lettere, della parola nel suo complesso e l'accesso al significato della parola. Infatti si ritiene che fondamentalmente l'attività mentale sia sequenziale anche se, alla luce di evidenti dati neurofisiologici, si ammette lo svolgersi in parallelo di alcuni aspetti dell'elaborazione. Per ciò che ci riguarda, i punti di vista si diversificano riguardo al momento in cui il contesto influenza il processo di comprensione: per alcuni per alcuni ciò avverrebbe fin dall'accesso lessicale, cioè dal momento in cui si individua la parola e quindi verrebbero attivati tutti i significati riferibili a quella parola; per altri invece vi sarebbe prima l'accesso lessicale ed in seguito, nella fase di interpretazione, si attiverebbe solo il significato adeguato a quel contesto. Questa distinzione, che potrebbe sembrare abbastanza secondaria, è diventata centrale nel dibattito sulla semantica poiché si ritiene che fare chiarezza su questo punto porterebbe a decidere tra il punto di vista modularista e quello interattivo.
In base al primo (Fodor, 1983 ed in particolare riguardo alla questione suddetta Forster, 1979) la mente può essere considerata composta di tre funzioni:
1) trasduttori
2) sistemi di input
3) processatore centrale.
In particolare i sistemi di input sono dei moduli che hanno competenza su domini di contenuto ristretti, elaborano molto velocemente l'input in maniera deterministica su un materiale (proveniente dai trasduttori) altamente specifico nel modo che è proprio a ciascuno di essi e che è dato dalla propria struttura determinata geneticamente. Questi moduli funzionano come archi riflessi cognitivi che non possono essere influenzati dal processore centrale il quale può accedere solo al prodotto finale dei moduli, la loro elaborazione è quindi non semantica, il significato può entrare in gioco solo nel momento in cui il processore centrale (per mezzo del quale si ha il pensiero vero e proprio e che permette all'organismo di porsi come un tutto nei confronti della realtà) accede al prodotto dei moduli. In base a questa visione l'accesso lessicale deve essere indipendente dal contesto, esso potrebbe essere utilizzato solo in una fase successiva durante l'interpretazione vera e propria.
Secondo il punto di vista interattivo (Rumelhart, McClelland, 1986) i vari processi possono influenzarsi reciprocamente in qualunque stadio del loro funzionamento, quindi le informazioni semantiche possono essere impiegate fin dalle prime fasi dei processi lessicali. In base a questa concezione il contesto influenzerebbe la comprensione fin dalle prime fasi, quindi anche con le parole ambigue si avrebbe accesso solo al significato adeguato alla situazione.
Questa differenza implica anche un modo diverso di intendere il pensiero umano, infatti la prima concezione sottintende una visione per cui l'elaborazione vera e propria avverrebbe per opera di questo processatore centrale, dovrebbero esservi regole (comunque sia immaginato il loro contributo) che agiscono semanticamente, solo nel senso che combinano le conoscenze in modo più complesso, contemplando anche il contributo di conoscenze molto diverse, ma in cui non c'è partecipazione dei livelli "inferiori". Ci sarebbe una separazione tra il livello fisico, sintattico e semantico.
La concezione interattiva, invece, prevede la partecipazione di tutto l'organismo all'elaborazione. La stessa elaborazione avverrebbe "semanticamente", la semantica non sarebbe un effetto risultante da un particolare tipo di regole, ma sarebbe lo stesso significato a guidare l'elaborazione.
Le due ipotesi sono state messe a confronto proprio nella comprensione delle parole ambigue utilizzando diverse metodologie. In particolare quella che sembra dare i risultati meno dubbi è il paradigma cross-modale (Swinney, Onifer, Prather, Hirshkowitz, 1979) con il quale i soggetti ascoltano una frase ed identificano il più velocemente possibile uno stimolo visivo (in genere una parola), presentato dopo un intervallo ed in posizioni controllate dallo sperimentatore. L'effetto di facilitazione che si rileva quando il target (lo stimolo visivo presentato dopo la frase) è correlato semanticamente al prime (solitamente la parola ambigua contenuta nella frase presentata inizialmente) è detto priming semantico ed è spiegabile appunto con il fatto che, la frase ascoltata precedentemente, ha richiamato tutta una serie di associazioni semantiche che risultano preattivate ed il cui accesso sarà più veloce, rispetto a parole che non hanno questo legame con la frase ascoltata.
In genere il prime è una parola ambigua, cioè che ha più significati molto diversi ed è la frase che permette di chiarire quale dei sensi è quello adeguato in quel caso. In questo modo vengono confrontati target costituiti da parole (o immagini) che non hanno un legame semantico con nessuno dei sensi del prime (controlli), parole che hanno un legame con altri significati (diversi da quello specificato dalla frase) del prime e parole correlate con quel particolare senso che il prime ha in quella frase. Se solo nell'ultimo caso si ha una facilitazione, se ne dovrebbe concludere che (come affermato dalla teoria interattiva) fin dall'inizio si è avuto accesso al significato (così che si è facilitato solo il particolare senso che la parola ha in quella frase). Invece, se anche parole correlate semanticamente ai sensi diversi di quella parola hanno ricevuto una facilitazione (come previsto dalla teoria modulare), se ne dovrebbe concludere che l'accesso lessicale è anteriore ed indipendente dal significato. In altre parole, solo dopo aver individuato la parola (modularmente), si sono attivati tutti i suoi sensi e tra questi, nella fase di interpretazione, si è individuato quello giusto. All'interno della teoria modulare, inoltre, possiamo distinguere un modello esaustivo (Swinney, 1979; Onifer, Swinney, 1981) secondo il quale quest'attivazione dei significati riguarderebbe tutti quelli conosciuti dal soggetto senza differenze di frequenza d'uso, o familiarità, differenze che invece ci sarebbero per il modello a ricerca ordinata (Hogaboam e Perfetti, 1975) secondo il quale l'accesso ai significati di una parola ambigua sarebbe seriale, partendo dal più frequente confrontandolo con il contesto e continuando con il successivo fino a trovare quello adeguato al contesto in esame. I primi lavori hanno prodotto risultati favorevoli al modello esaustivo (Seidenberg, Tanenhaus, Leiman, Bienkowsky, 1982; Swinney, 1979). Ma i risultati di Tabossi, Colombo & Job (1987) non sono conciliabili con essi, infatti in questo lavoro quando il significato pertinente era quello più frequente, risultava facilitato solo questo, mentre quando era adeguato il significato secondario (gli studi erano fatti su parole ambigue che avevano due sensi diversi), risultavano facilitate le parole relate ad entrambi i sensi rispetto a quelle di controllo. Questo sembrerebbe favorevole al modello a ricerca ordinata, che però, oltre ad essere contraddetto dal lavoro di Onifer e Swinney (1981), è in contrasto anche con un successivo lavoro di Tabossi (1988). In esso si sono confrontate due tipi diversi di frasi nelle quali il significato pertinente era quello principale, alcune in cui si accennava alle caratteristiche fondamentali del significato dominante ed altre di tipo più pragmatico, che accennavano solo ad un uso del significato dominante. Queste ultime a differenza delle prime, che continuavano a facilitare solo il senso principale, favorivano anche il secondario, mentre per il modello a ricerca ordinata la ricerca avrebbe dovuto fermarsi prima e non sarebbe stato necessario attivare anche questo secondo senso.
Per quanto riguarda il terzo modello, quello che sostiene che l'accesso al significato è sensibile al contesto fin dalla fase di accesso lessicale, vi sono molti lavori che mostrano gli effetti previsti da esso con varie metodologie (Cairns & Hsu, 1980; Glucksberg, Kreutz & Rho,1986). Ma anche in questo caso, vi sono lavori che presentano risultati che non sono spiegabili con questo modello. In particolare tutti quelli che mostrano un'attivazione di più significati, anche in contesti non neutri.
I sostenitori dei diversi modelli, in genere, attribuiscono le incongruenze trovate da altri nei loro modelli a difetti di tipo metodologico, ma sembra abbastanza chiaro che nessuno dei tre modelli possa spiegare pienamente tutti i dati riscontrati nei vari esperimenti, così che più probabilmente i tre modelli esprimono tre aspetti diversi di un processo che non è così lineare come si è cercato (per giuste esigenze di chiarezza e di economia) di raffigurarli. Un modello, proposto recentemente da Tabossi (1993) tenta di superare i problemi comuni a questi modelli che sarebbero nel fatto che essi
"concepiscono i contesti di frase come unità indifferenziate, di cui assumono o negano l'efficacia nel processo di accesso lessicale a prescindere dal tipo di informazioni che forniscono all'ascoltatore. L'intuizione suggerisce tuttavia che i contesti possono variare enormemente.[...] i risultati sono di tipo esaustivo con i contesti non restrittivi e di tipo selettivo con i contesti restrittivi" (Tabossi 1993, p. 35).
L'ipotesi è quindi che
"il recupero dal lessico normale del significato di una parola non è un fenomeno discreto bensì un processo graduale di attivazione che avviene nel tempo: man mano che una persona riceve sempre più informazione relativa alla parola che sta ascoltando, i significati delle parole compatibili con quell'input ricevono sempre maggior attivazione.[...] Alla fine della parola, naturalmente, solo il significato della parola compatibile con l'intero input resterà attivato"(Tabossi 1993, p. 35).
Evidentemente, quando la parola in questione è ambigua, il significato non sarà ancora determinato, se il contesto non è abbastanza restrittivo, oppure se la parola appare isolata ed in questo caso
"il suo significato dominante riceve un'attivazione che è più forte, più veloce ad emergere e più resistente al decadimento dell'attivazione del significato subordinato [...] Contesti restrittivi, invece, possono modificare i processi di accesso lessicale, rafforzando e accelerando l'attivazione del significato congruente a scapito di quello non congruente" (Tabossi 1993, p. 36).
Questa ipotesi riavvicina, dunque, il processo di accesso al significato a quello del riconoscimento in generale ed è molto più vicina alla nostra concezione del significato, visto non come qualcosa di isolato da apporre ad un segno, ma come parte del porsi dell'organismo nei confronti della realtà. Aver riconosciuto una parola come tale non è diverso dall'essere influenzati dal suo significato, la parola a volte non viene nemmeno letta (come è dimostrato da molti studi sui movimenti oculari durante la lettura, che mostrano come molte parole non vengano fissate), nel senso inteso dalle ricerche sul riconoscimento di parole isolate, ma anticipata in base al contesto, in alcuni casi quello che si cerca con i sensi è una conferma dell'ipotesi che si era fatta. In ogni caso è tutto il contesto, l'intera frase, il discorso, la situazione, lo scopo che determina un significato globale che ogni singola parola va a correggere e precisare. In questo senso la lezione di Husserl che considera "l'uomo immerso in un universo di significati interpretati (o più esattamente creati) incessantemente dall'intensione" si rivela un'importante linea guida verso cui ci si sta attualmente muovendo. Infatti che la percezione deve essere vista come un fenomeno attivo è ormai ampiamente accettato.
Anche Kellas, Paul & Martin (1991) sottolineano come il significato va visto in porzioni più ampie della singola parola:
"Il significato di una parola non può essere rappresentato come un singolo nodo concettuale in una rete di significati. Piuttosto, il significato deve essere rappresentato come una costellazione dinamica di caratteristiche distribuite che riflettono il significato della parola nel contesto.[...]
Ignorando gli effetti del contesto sulla rappresentazione del significato, come indicano i nostri risultati, può condurre a provare o il modello dell'accesso multiplo, o quella dell'accesso selettivo a seconda delle circostanze. La mancanza di comprensione del sottile, o a volte notevole, cambiamento di significato dovuto a cambiamenti legati al contesto, porta a travisare i processi sottostanti la comprensione del linguaggio.
Per capire i meccanismi implicati nella comprensione di parole nel contesto, i ricercatori stanno tentando di determinare la natura dell'accesso al significato risultante dall'esposizione a termini isolati. Se testi estesi possono essere ridotti allo studio di singole parole, non ne segue che studiare l'accesso lessicale di parole isolate necessariamente ci dirà di più riguardo alla normale comprensione di quanto viene letto. Né ne segue che i contesti dati da singole parole, che precedono quelle studiate, sono del tutto rappresentative delle normali condizioni di lettura. [...] E' ragionevole aspettarsi che quelle frasi (o contesti) che non restringono il significato di una parola ambigua, sembreranno essere prove a favore dell'accesso multiplo. Non ci sarebbe un contesto sufficiente a definire il senso adeguato, dato che l'adeguatezza, in tale caso, è arbitraria. Ci si potrebbe aspettare un accesso selettivo solo quando il lettore è obbligato ad una singola interpretazione della frase. Quindi, noi concludiamo che invece di sforzarsi di trovare conferme per l'accesso multiplo o selettivo, i ricercatori dovrebbero focalizzarsi sul determinare che cosa in realtà viene attivato dai contesti delle frasi." (pagg. 65-67)
Anche dal nostro punto di vista gran parte del dibattito sull'accesso lessicale appare ingiustificato. Infatti, col precisarsi del significato dell'intero messaggio, si entra nella relazione opportuna con l'oggetto del messaggio e questa stessa relazione è il significato che tutto il messaggio assume per quella persona in quel momento.
O'Seaghda (1989, pag. 84) afferma che gli effetti sono determinati dalla natura della rappresentazione che è stata costruita, più che da elementari processi di attivazione e aspettativa. Egli infatti dimostra (O'Seaghda, 1989) come, differenziando il contributo dato alla facilitazione (in un compito di decisione lessicale) dal contesto lessicale, questo era minimo. L'esperimento consisteva nel presentare ai soggetti semplici frasi costituite da sostantivi intervallati da preposizioni e congiunzioni, le quali potevano essere adeguate alla frase o fuori posto. La collocazione dei sostantivi rimaneva la stessa e, se la facilitazione fosse dovuta solo all'attivazione intralessicale, non ci sarebbe stata differenza tra le frasi in cui le particelle erano adeguate e quelle in cui erano fuori posto.
In un altro esperimento (Williams, 1988) il prime era una parola presentata uditivamente da sola, o all'interno di una frase, subito dopo veniva presentato visivamente il target. Si è trovata una chiara divergenza tra l'attivazione prodotta dalle parole presentate isolatamente e quelle stesse quando si trovavano all'interno di una frase. Il contesto sarebbe costituito quindi principalmente dalla frase nel suo complesso, da ciò che è stato interpretato, piuttosto che da un meccanico attivarsi di tutti i significati dei termini legati ad ogni parola che viene letta.
Anche la struttura sintattica ha un effetto semantico, infatti Tanenhaus, Dell & Carlson (1987), hanno mostrato dei contesti semanticamente neutri, seguiti da parole e non parole, sintatticamente accordate o meno al resto della frase. In un compito di lettura fu osservato un forte effetto priming dovuto alla sintassi anche per le non-parole.
Più che individuare una sequenza di: riconoscimento di caratteristiche fisiche, individuazione della parola, recupero dei suoi significati e scelta di quello giusto, abbiamo a che fare con una ricerca attiva del significato, che porta già ad un avvicinamento ad esso (potremmo dire, forse esagerando un pò), nel momento in cui si percepisce l'aspetto generale della frase. La ricerca del significato guida il processo di lettura per cui si presta maggiore attenzione agli aspetti che risultano meno univoci, inaspettati, mentre si passa velocemente su ciò che, già ad una prima sommaria analisi, si rivela previsto nel senso che si va formando, negli aspetti prevedibili di questo. Ciò è perfettamente confermato da due decenni di ricerche sui movimenti oculari condotte da Patricia A. Carpenter, M. Daneman e Marcel Adam Just. Ora, quindi, analizzeremo più approfonditamente alcuni dei loro risultati.
Nei loro lavori hanno mostrato come le diverse parole di un brano vengono fissate per tempi diversi ed alcune vengono totalmente saltate (in genere particelle che portano poca informazione come articoli o congiunzioni previste), mentre ricevono molta più attenzione le parole che hanno più a che vedere con l'argomento di cui si sta leggendo, che sono in qualche misura impreviste, o sconosciute. Soprattutto, queste ultime, ricevono un maggior numero di fissazioni, infatti è frequente che lo sguardo ritorni su parole già "lette". Un'analisi approfondita della questione può essere trovata in Carpenter & Just (1977):
Il comportamento di fissazione oculare può essere analizzato in funzione delle relazioni semantiche ed anaforiche tra la frase corrente e quelle precedenti.[...] La fissazione degli occhi nella lettura può essere caratterizzata come una serie di pause (le fissazioni) intervallate da salti (saccadi). La maggior parte del tempo durante la lettura (90-95%) trascorre con gli occhi fermi.[...] Le fissazioni sono state generalmente interpretate come indicatori dei processi interni di comprensione[...] Le teorie della fissazione oculare di solito attribuiscono il controllo della fissazione durante la lettura ad uno o più di tre sistemi: i processi oculomotori, i processi visivi, o quelli semantici. Un modello oculomotorio afferma che le fissazioni oculari sono controllate da un sistema motorio che è guidato solo dall'informazione più rudimentale del testo, quale l'inizio e la fine delle linee stampate, ma sono insensibili all'elaborazione di informazione a più alto livello. Un modello visivo secondo il quale le fissazioni sono influenzate dall'elaborazione di proprietà visive (non semantiche) del testo, quali il tipo di carattere delle lettere, gli spazi tra le parole e la punteggiatura. Un modello semantico che ritiene le fissazioni influenzate dall'elaborazione semantica che si sta facendo. Una certa combinazione di questi tre processi spiega il comportamento di lettura in ogni situazione. Comunque è importante notare che il contributo di ogni singolo processo probabilmente sarà diverso a seconda della situazione.[...] Il punto di fissazione potrebbe essere controllato dall'elaborazione semantica di ciò che si è precedentemente fissato, con l'assunzione che l'elaborazione genera ipotesi sulla collocazione di parole importanti. (pagg. 109-112)
Già Buswell, (1937) presentò molti dati indicanti che parole non familiari ricevevano un numero di fissazioni molto maggiore delle altre. O'Regan, (1975) ha mostrato che chi legge, non fissa gli articoli se la loro presenza è intuibile. Nel suo esperimento, mostrava ai soggetti frasi che avevano la stessa semplice struttura ed in cui c'erano sostantivi sia brevi che lunghi, in ogni caso i soggetti saltavano gli articoli, ma non i sostantivi. Gli stessi Just & Carpenter (1980) hanno misurato i tempi di fissazione totale (gaze) delle varie parole nella lettura di brani scientifici da parte di studenti. I movimenti oculari erano rilevati da un sistema che riprendeva tramite una telecamera, sistemata in modo tale da non disturbare, i movimenti della pupilla e la riflessione della cornea. I dati sono stati analizzati tramite una retta di regressione multipla in cui le variabili indipendenti sono i fattori che gli Autori ritenevano potessero influire sui tempi e variabili indipendenti erano i tempi di fissazione totale, cioè ottenuti sommando i tempi delle fissazioni che si susseguivano su ogni parola. Da questa analisi emerge che:
Non c'è un solo modo di leggere. La lettura varia in funzione di chi legge, di cosa sta leggendo e del motivo per cui sta leggendo.[...] I propositi del lettore sono, probabilmente, la determinante principale del processo di lettura. Un lettore che scorre un brano per grandi linee legge diversamente da qualcuno che sta tentando di memorizzare un passaggio, o da un altro che sta leggendo per piacere. Le mete trovano spazio in molti punti del modello proposto, in particolare si passa alla parola, proposizione, o frase successiva solo dopo aver soddisfatto lo scopo che ci si proponeva o almeno aver tentato di farlo. [...] Il compito supplementare associato con il compito di memorizzare un passaggio può richiedere la ripetizione delle frasi, o la costruzione di esplicite mnemoniche prima di passare alla frase successiva. Ma le mete possono essere anche eliminate oltre che aggiunte. Un lettore veloce può eliminare obiettivi riguardanti la coerenza sintattica, poiché la strategia di saltare molte parole distruggerà la sintassi. La lettura inoltre dipende dal testo, l'argomento e la familiarità del lettore con entrambi. Un paragrafo ben scritto, su un argomento familiare sarà più facile da elaborare in tutti gli stadi della comprensione.[...] Anche la lettura dello stesso testo sotto le stesse circostanze varierà da persona a persona. Ci sono molte plausibili fonti di variazioni nella teoria. (pagg. 350-351)
Il modello di lettura di Carpenter & Just
La teoria della lettura di Carpenter & Just si basa su due assunti: quello dell'immediatezza e quello del legame occhio-mente. In base al primo quando si legge, si interpreta una parola mentre si sta fissando e si continua a guardare finché non si è completamente elaborata. Ciò evita che ci sia un'esplosione combinatoria, come accadrebbe se il lettore tenesse in sospeso tutti i possibili significati, ruoli sintattici e collegamenti di ogni parola per elaborare tutto solo alla fine di ogni proposizione o frase. Questo tipo di organizzazione, inoltre, spiega come sia possibile operare con un sistema di elaborazione a capacità limitata, quale è la memoria di lavoro, su una grande rete semantica senza essere bombardati da associazioni irrilevanti. Ciò minimizza le possibilità che il lettore sia concettualmente guidato in molte direzioni contemporaneamente. Il costo di questo tipo di elaborazione è particolarmente basso perché le prime decisioni solitamente sono giuste. In caso di errori comunque chi legge può velocemente tornare sui termini che hanno causato il fraintendimento e correggere l'interpretazione.
E' raro che si verifichino questi casi, di errata interpretazione che deve essere poi corretta, sia perché vengono messe in atto delle strategie per evitarlo (che devono essere ancora ben individuate), sia perché di solito c'è il contesto che guida nella giusta direzione e sia perché, ancora, di solito è chi scrive che evita di comporre frasi ambigue.
L'assunzione della corrispondenza occhio-mente, prevede che il lettore continui a fissare una parola, finché tutti i processi cognitivi iniziati da essa, sono giunti ad un certo livello fissato di completezza. Quindi il tempo impiegato per elaborare una parola è indicato direttamente dalla durata complessiva delle fissazioni su di essa. Prove a favore sono il fatto che il tempo trascorso su ogni parola dipende principalmente dalle caratteristiche di quella parola, e che questo non dipende dalla lunghezza o frequenza delle parole precedenti.
Vi sono molti lavori in appoggio a questa assunzione, in particolare Carpenter & Daneman, 1981 e Just & Carpenter, 1978. Quest'ultima assunzione è stata in parte messa in discussione da Fisher & Shebilske (1985), i quali mettono in dubbio che le parole non fissate non vengano elaborate. Propongono invece ipotesi alternativa, compatibile con quei stessi dati, cioè che chi legge divida il suo tempo tra la parola fissata e le parole parafoveali, quelle che non sono nella zona di messa a fuoco centrale, in particolare quelle seguenti questo punto (Parafoveal processing hypotesis). Ciò implica anche che la durata delle gaze (cioè della somma delle successive fissazioni su di una parola), da sola non indichi come l'elaborazione è distribuita tra le parole adiacenti. I dati a disposizione non permettono di confrontare queste due diverse ipotesi: quella che c'è elaborazione parafoveale e quella che prevede un legame rigido tra fissazione ed elaborazione.
Alla difficoltà di determinare quali parole non sono fissate, si aggiunge quella di determinare se le parole non fissate sono elaborate, infatti il richiamo di una parola non fissata non esclude che possa essere inferita dal contesto. Fisher & Shebilske hanno aggirato questa difficoltà, contrapponendo un secondo gruppo che vedeva lo stesso contesto, ma senza le parole target, al loro posto c'erano solo spazi bianchi. Secondo un'interpretazione rigida dell'assunzione mente-occhio non ci doveva essere differenza tra i due gruppi, mentre secondo l'assunzione parafoveale coloro che vedevano parafovealmente dovevano mostrare una prestazione migliore del gruppo di controllo. I risultati sono stati a favore di questa seconda ipotesi mostrando una prestazione molto migliore da parte del primo gruppo in un compito di ricordo. Gli Autori suggeriscono anche che, l'aspettativa determinata dal contesto, interagisce con l'informazione parafoveale, nel determinare quello che verrà fissato. Anche Ehrlich & Rayner (1981) hanno trovato che i lettori fissano di meno le parole target, quanto più queste corrispondono alle aspettative. Ne deducono che
la qualità dell'informazione tratta dalla visione parafoveale è costante indipendentemente dal livello di prevedibilità. Comunque, l'informazione proveniente dalla visione parafoveale può essere utilizzata più efficacemente in condizioni altamente obbligate poiché la soglia per identificare una parola parafoveale è minore che per in condizioni meno prevedibili. (pag.654)
Gli Autori ritengono che questo aspetto sia sfuggito a Carpenter & Just a causa della misurazione privilegiata del gaze (cioè il tempo globale di fissazione di una parola somma di successivi ritorni). Se si esclude la lettura periferica diventa più difficile spiegarne la flessibilità. Anche alla luce dei risultati di Ehrlich & Rayner, sembra molto più realistico e naturale supporre che il lettore utilizzi anche dell'informazione proveniente dalle parole parafoveali, ma che quest'utilizzo sia parziale, una conferma delle inferenze fatte, solo in caso di incertezza si va a controllare se effettivamente la parola è quella. E' come uno sfondo che ci è familiare e che nemmeno notiamo, ma da cui siamo subito attratti se c'è qualcosa di cambiato. Così anche per il significato della frase può essere necessario andare a guardare un numero maggiore o minore di parole a seconda della difficoltà e della familiarità che si ha con gli argomenti del testo. Il processo ha delle componenti discrete date dal fatto che le parole sono un pacchetto di informazione a se stante, ma il processo generale di lettura è molto più continuo di quello che ci fa pensare il dare importanza all'uso delle parole come elementi discreti combinati insieme. L'elemento discreto è il concetto (e fino ad un certo punto, in quanto anch'esso sta in continuità con il discorso generale di tutto il brano che si sta leggendo). In genere ogni frase contiene un concetto ed è questa, quindi, che risulta parzialmente discreta. I vari elementi della frase vanno a completarne il senso generale e ricevono più o meno attenzione in dipendenza delle caratteristiche che sono state esaminate. Anche assunzioni comuni, come il fatto che in una frase familiare, non si notano errori ortografici, se questi non sono evidenti nel loro aspetto grossolano, confermano un modello che preveda una ricerca degli elementi che servono per completare il senso, più che un'analisi sistematica di tutto il materiale. Allo stesso modo, la lettura di parole parafoveali è limitata a qualche caratteristica che, dato il contesto e la familiarità con le parole, permette di completare il senso della frase. E' preferibile considerare come unità di significato la frase. Alcune parole, meno prevedibili, saranno esaminate più approfonditamente, per altre potrà bastare l'aspetto generale. Se al posto di queste parole secondarie vengono messi degli spazi bianchi, ciò non comunica l'informazione attesa e richiede un'elaborazione diversa da quella consueta.
Il significato, dunque, secondo la nostra ipotesi, si definisce meglio man mano che si precisa il contesto. Non c'è un significato ben preciso e delimitato che deve essere rinvenuto, recuperato dal magazzino, ma è un continuo precisare meglio ed affinare, finché non risulta sufficientemente chiaro, finché, in altre parole, si è trovato un modo soddisfacente di porsi rispetto a quell'oggetto, a quella situazione, a quella porzione di realtà. Dobbiamo ricordare la natura strumentale del linguaggio, non c'è alcuna corrispondenza uno a uno, diretta, isomorfa tra parole ed oggetti indicati da esse.
Un altro suo aspetto da tener presente è che spesso il significato di una parola viene appreso proprio ricavandolo dall'uso che se ne fa in un discorso, ciò non sarebbe possibile se fosse necessario postulare l'esistenza di un significato già immagazzinato. Né, soprattutto, sarebbe possibile quel continuo affinare e precisare il senso di cui siamo testimoni ogni giorno. Potremmo dire, provocatoriamente, che ogni volta che si usa una parola, lo si fa in un modo nuovo, con un'accezione diversa da quella acquisita, con una sfumatura diversa. Tutto ciò è possibile perché l'unità di significato è l'intera frase, o almeno l'intera proposizione e, procedendo nella lettura, esso si precisa meglio. Il nostro accesso al significato consiste nel mutare leggermente un aspetto delle nostre conoscenze adeguandolo alla realtà (reale o immaginaria), in definitiva cambiamo il nostro modo di rapportarci ad essa.
Il modello di Carpenter & Just, ci fornisce una teoria completa dei processi di lettura in gran parte compatibile con le nostre osservazioni. Abbiamo detto che esso si basa sull'assunto dell'immediatezza e su quello della corrispondenza occhio-mente. Anche mitigando quest'ultimo assunto con le considerazioni sulla visione parafoveale esso rimane valido nei suoi punti fondamentali. Comunque, bisogna tenere conto del fatto che la maggior parte delle loro dimostrazioni si basavano sulla misura dei tempi totali di fissazione su ogni parola (gaze) e, ammettendo che si ha una parziale percezione anche delle parole circostanti, questi tempi non sono più perfettamente indicativi della fissazione totale su ogni parola. In questo modello si da importanza a queste tre proprietà:
1) La conoscenza strutturale e procedurale è immagazzinata sotto forma di regole che legano condizioni ad azioni, così che una data condizione produca una certa azione. Vi sono produzioni che operano in serie, così che una produzione ne stimola un'altra e produzioni che operano in parallelo producendo attivazioni diffuse, parallele. Queste produzioni in parallelo, operano sia parallelamente a quelle seriali, che alle altre in parallelo. Quelle seriali operano o su costanti o su variabili, quelle parallele solo su costanti, cioè associano un'azione ad un determinato stimolo, non ad una classe, così attivano il concetto di cane non appena viene letto gatto. Il fatto che ci siano questi due tipi di produzione permette che, mentre si segue un certo percorso di comprensione, si attivi parallelamente della conoscenza importante semantica ed episodica.
2) Le produzioni operano sui simboli nella memoria di lavoro, che ha una limitata capacità. I simboli sono concetti attivati che costituiscono le entrate e le uscite delle produzioni. Il recupero dalla memoria a lungo termine, si ha quando una produzione attiva un concetto, facendo si che venga inserito nella memoria di lavoro.
La memoria a lungo termine è una collezione di produzioni, che sono depositarie sia della conoscenza dichiarativa che procedurale. Una nuova struttura di conoscenza è acquisita nella memoria a lungo termine, se viene creata una nuova produzione che codifica quella struttura. Ciò si verifica se la struttura partecipa di un gran numero di episodi di elaborazione.
Questo è il punto meno in accordo con il nostro modello. Ma possiamo considerare queste affermazioni delle approsimazioni accettabili. Le divergenze sono date soprattutto da ciò che sottintende il linguaggio utilizzato. Piuttosto che di attivazione di un concetto, preferiamo parlare di una pre-attivazione generale nel senso che abbiamo visto, ma l'effetto di ciò è poi compatibile. Invece che di recupero dalla memoria a lungo termine, troviamo più preciso parlare dell'emergenza di un pattern di attivazione e non parliamo di produzioni, ma di associazioni tra situazione organismo-ambiente e adattamenti-risposte.
3) Gli items che sono nella memoria di lavoro, ad un certo punto disabilitano una data produzione ed inseriscono nuovi items, che a loro volta abilitano un'altra produzione e così via. In questo modo, sono gli stessi risultati intermedi dei processi di comprensione che si trovano nella memoria di lavoro che influenzano l'elaborazione successiva, senza bisogno di controlli centrali. La composizione di ogni stadio è semplicemente una collezione di produzioni che condividono un obbiettivo a livello più alto.
Da parte nostra deve essere approfondito il modo in cui è più opportuno considerare la memoria di lavoro, date le nostre premesse. Tuttavia, intuitivamente questi processi risultano compatibili sebbene vadano descritti in altro modo ed approfonditi i meccanismi.
Questa architettura permette ai vari stadi di essere eseguiti non solo nell'ordine comune, ma anche in sequenze non canoniche. Alcuni stadi di lettura possono essere saltati. Altri possono essere eseguiti prima del normale, se le condizioni che li attivano si presentano prima. Ciò permette gli effetti contesto nella comprensione, ciò si verificherebbe se uno stadio di elaborazione, che normalmente è intermedio, è parzialmente o completamente eliminato. L'organizzazione del sistema di produzione può inoltre spiegare come stadi successivi possano influenzare stadi precedenti; infatti se si creano in anticipo condizioni per l'abilitazione di stadi successivi, allora le loro uscite possono servire anche a stadi precedenti. In questa visione degli stadi di elaborazione, vari stadi possono essere eseguiti contemporaneamente, nel senso che il funzionamento di due o più stadi può essere intercambiabile. Di conseguenza dati e controllo possono essere trasferiti avanti ed indietro, tra differenti stadi.
Si possono distinguere cinque fasi :
1) Ricerca di nuovo input.
Quando lo stadio percettivo e semantico sulla parola precedente ha raggiunto il livello richiesto gli occhi si muovono (si ha una saccade) su una nuova parte del testo, una o due parole più avanti. Questo processo avviene senza controllo intelligente, ciò ne permette la rapidità. Infatti il tempo di una saccade si riduce a poco più del tempo necessario a tradurre in movimento il segnale di "via", circa 30 msec. La saccade stessa può distruggere i residui dell'informazione precedente, così che essa non interferisca con quella nuova, proveniente dalla nuova fissazione. Di conseguenza, è ragionevole assumere che la codifica dello stimolo possa iniziare subito dopo l'arrivo degli occhi sul nuovo punto di fissazione.
2) Codifica della parola ed accesso lessicale.
Il processo di lettura implica la codifica di una parola in un formato semantico interno. La codifica percettiva attiva la rappresentazione di una parola, a questo punto si ha accesso al concetto corrispondente, che viene inserito nella memoria di lavoro. Il concetto serve come puntatore ad una rappresentazione più completa del significato, che consiste di una piccola rete semantica, realizzata come un insieme di produzioni. I nodi principali della rete sono i significati possibili della parola, le proprietà semantiche e sintattiche dei significati e le informazioni sui contesti in cui si trovano di solito. I significati delle parole sono rappresentati come predicati astratti, definiti dalle loro relazioni con gli altri predicati.
Il meccanismo sottostante l'accesso lessicale, è l'attivazione della rappresentazione del significato di una parola da parte di varie fonti. Ci sono tre modi per incrementare temporaneamente il livello di attivazione al di sopra del suo livello base: la codifica percettiva, le produzioni parallele e le produzioni seriali. Quando un concetto è stato attivato oltre la soglia da una o più di queste fonti, viene inserito nella memoria di lavoro un puntatore al suo significato. In seguito il livello di attivazione decresce gradualmente ad un livello sottosoglia, ma leggermente più alto di quello di partenza, finché non viene nuovamente attivato. Allo stesso modo, le diverse accezioni di una parola hanno livelli diversi di attivazione, così che i significati più comuni hanno un livello base più alto. Questo modello dell'accesso lessicale, può rendere conto degli effetti della frequenza di parole, del priming e degli effetti dati dalla ripetizione. Questi sono stati spiegati dagli Autori in vari lavori analizzandoli in relazione ai gaze (la somma dei tempi delle successive fissazioni su una parola). Confrontando i gaze con il logaritmo della frequenza di ogni parola (Just & Carpenter, 1980) hanno trovato una diretta relazione. Ad un estremo della frequenza vi sono le parole che il lettore non ha mai incontrato prima. In questo caso non vi è nessuna rappresentazione preesistente ed il lettore deve costruirne una da associare alle proprietà semantiche e sintattiche del concetto che possono essere inferite dal passaggio. Ciò comporta un grande dispendio di tempo. Molti lavori indicano che frequenza e ripetizione influiscono principalmente sull'accesso lessicale, anche se hanno un debole peso sulla codifica (Dixon & Rothkopf, 1979; Glanzer & Ehrenreich, 1979; Scarboruogh, Cortese & Scarborough, 1977) . Secondo il modello di Just & Carpenter l'effetto ripetizione si verifica perché, dopo che una parola è stata incontrata una volta, il suo livello di attivazione rimane più alto, come per una parola frequente. Quest'effetto, infatti, è più evidente per le parole poco frequenti.
L'accesso lessicale è complicato dall'esistenza delle parole polisemiche, l'accezione selezionata è quella con il più alto livello di attivazione e vari fattori possono influire: 1) il livello base dato dalla frequenza; 2) le produzioni automatiche, che producono attivazione diffusa, date sia dalle conoscenze del lettore del dominio che dello stile; 3) l'uscita di altri stadi che hanno operato sulla stessa parola; 4) quando una parola ha molti significati attivati in maniera simile, in un contesto povero che non chiarisce, l'interpretazione selezionata può essere il concetto superordinato.
Se si suppone che un solo significato sia attivato si ha un modello che prevede un'esplosione combinatoria molto minore, infatti verrebbero attivati solo i legami con quel significato e gli effetti contesto sarebbero focalizzati nel dominio semantico appropriato. Ciò è confortato da dati sperimentali, i quali indicano che dopo poche centinaia di millisecondi, rimane attivato solo un significato. In un esperimento di Swinney (1979), i soggetti ascoltavano una frase e svolgevano un compito di decisione lessicale su stimoli presentati visivamente. Quando una parola ambigua veniva presentata in una frase che ne esplicitava l'accezione, la velocità di una decisione lessicale legata ad entrambi i significati collegati, era più veloce che nei controlli. Ma questa facilitazione si aveva solo entro pochi millisecondi dalla presentazione della parola ambigua. Se la prova era posticipata più a lungo, l'accezione inappropriata non veniva più facilitata. Ciò mostrerebbe chiaramente che, quando viene trovata una parola ambigua, si attivano entrambi i significati legati ad essa, ma il significato inappropriato è perso dalla memoria di lavoro dopo pochi millisecondi.
Possiamo immaginare che l'attivazione iniziale è data da processi automatici operanti al di là di quelli semantici, l'attivazione del significato appropiato differenzialmente invece, avviene tramite procedimenti semantici. Come se vi fosse un'attivazione indifferenziata che attiva tutti i significati, ma in cui solo quelli che già sono preattivati dal contesto, dalle altre parole, rimangono attivi. Nel modello che stiamo proponendo decadono le attivazioni che non hanno senso, che non vengono a formare un quadro d'unione che corrisponda ad un'esperienza, vissuta, immaginata, comunque reale in senso lato.
L'assunzione dell'immediatezza presuppone che il tentativo di legare una parola al contesto, avvenga il più presto possibile, anche se qualche volta ciò non è possibile durante la fissazione, perché sono necessari più dati.
3) Assegnazione dei ruoli sintattici.
La comprensione implica la determinazione della relazione tra parole, concetti e tra tutte le parti del testo. Ogni parola tende ad essere vista più facilmente in un particolare ruolo e può sorprendere quando si trova in una funzione inconsueta. Vi sono molte strategie che permettono di assegnare i ruoli adeguati. Molti modelli contengono l'idea che i lettori utilizzino il verbo come riferimento per stabilire i ruoli dei nomi. Ma questo ruolo privilegiato non viene riconosciuto da questo modello che fa l'assunzione di immediatezza. Nemmeno l'euristica di interpretare le sequenze nome-verbo-nome come soggetto-azione-oggetto (utilizzata principalmente dai bambini) è riconosciuta dagli assertori di questa assunzione. Carpenter & Just ritengono invece che venga supposto come soggetto il nome di qualcosa di animato, in assenza di altre indicazioni. Il fatto di assegnare subito un ruolo, implica che a volte il lettore sbaglia e si corregge successivamente. Anche per quanto riguarda l'individuazione delle proposizioni, delle parti di frasi con un senso (in assenza di indicatori come congiunzioni o punteggiatura), viene proposta una strategia che presuppone l'assunzione di immediatezza, cioè il lettore assegna ogni termine alla proposizione precedente, a meno di successive correzioni.
4) Integrazione tra proposizioni.
Ogni frase e proposizione deve essere messa in relazione con le altre perché si abbia la comprensione del testo. Una strategia è mettere in relazione la nuova informazione a quella già nella memoria di lavoro, o perché è la più recente, o perché ci sono stati continui riferimenti ad essa. Una seconda strategia è quella di cercare determinati legami basandosi su indicatori presenti nella nuova frase stessa. A volte la vecchia informazione è esplicitamente marcata (come nelle relative), altre volte si ricava dall'argomento. Questa seconda strategia è più lenta. Il risultato dell'integrazione è la creazione di una nuova struttura. Un puntatore a questa nuova struttura è un simbolo, che può essere usato in elaborazioni successive. In questo modo l'integrazione raggruppa l'informazione e permette, alla limitata memoria di lavoro, di trattare anche lunghi passi di prosa. L'integrazione porta anche una perdita, dalla memoria di lavoro, del materiale meno importante, che è stato attivato da molto e che non si è relazionato ad altra informazione. In questo modo, si perdono le rappresentazioni letterali delle frasi, ma rimane il loro significato.
Un posto di rilievo hanno gli argomenti che interessano il lettore, o che hanno un'importanza centrale nel testo, perché attivati più spesso. L'integrazione di materiale più importante per il lettore, o più collegato al testo richiede più tempo dei dettagli, proprio per il numero maggiore di legami. Il modello predice che la durata delle fissazioni totali su una sezione, dipende dal suo ruolo grammaticale e dal numero di concetti che contiene. Il costo dell'immediata assegnazione di un ruolo ed integrazione è dato dal fatto che ci saranno errori che devono essere successivamente corretti. Ci si accorge dell'errore, quando nuova informazione deve essere integrata e non collima con quella già presente. L'osservazione dei movimenti oculari, mostra che il lettore che trova un'inconsistenza va con lo sguardo al punto in cui si trova probabilmente l'errore. Se ciò non basta, passa a controllare altre parole la cui interpretazione è stata difficoltosa, come parole ambigue. L'abilità riscontrata nell'andare direttamente sul posto che ha causato l'errore, rende la strategia dell'immediatezza efficace.
5) Chiusura della frase
Il momento in cui si arriva alla fine di una frase è particolare, perché a quel punto, di solito, devono essersi chiariti tutti i punti in sospeso. Inoltre alla fine della frase non ci sono dubbi sul fatto che è finito un pensiero e ne inizia un altro. Ciò fa si che alla fine della frase si completino tutti i collegamenti con il resto del discorso (sentence wrap-up). Ci sono studi dei movimenti oculari durante la lettura (in particolare Just & Carpenter, 1978) i quali mostrano che, quando deve essere fatta un'inferenza lessicalmente basata, per collegare una nuova frase ad una qualche precedente porzione di testo, c'è una forte tendenza a fermarsi all'altezza del termine in questione ed alla fine della frase che lo contiene. E' possibile che completamenti si abbiano anche, qualche volta, alla fine di proposizioni. La decisione su quando fare un wrap-up dipende dalla profondità di elaborazione ricercata.
Abbiamo visto, dunque, che molte delle difficoltà che troviamo nei modelli della lettura attuali possono essere superate se si evita di soffermarsi troppo sulla sequenzialità delle varie frasi. Con il concetto di significato che abbiamo proposto, la semantica assume un'importanza centrale, invece che essere il risultato quasi automatico di una serie di processi meccanici. I risultati sperimentali, come abbiamo visto, non sono in contrasto con questa posizione, al contrario sembrano supportarla. Ma chiaramente è necessario impostare delle prove che ci permettano di chiarire meglio i vari aspetti del processo e di verificare le previsioni di questo modello.