|
||||||
DOCUMENTS
elab.immagini
galileo
realtà virtuale
vrml
biomeccanica
esapodi
formula1
intelligenza
Papers
meccanica
sistemi
robotica
Secondo il paradigma dell'Human Information Process, il complesso processo della lettura potrebbe essere visto come una sequenza di analisi di livello via via più complesso, in modo tale che, partendo dalle caratteristiche fisiche dello stimolo, si arrivi al significato di questo. Contemporaneamente si ha modo anche, data la conoscenza che si ha di una data situazione, di influenzare dall'alto, cioè dai livelli più complessi, le decisioni che vengono prese a quelli inferiori, sulle ambiguità a livello semantico, sintattico, o anche fisico che presenta il materiale che si sta leggendo.
Questo paradigma contiene una grande quantità di modelli che si confrontano su vari aspetti di questo processo. I confronti vanno avanti da almeno un paio di decenni, così che c'è un certo accordo su alcuni punti fondamentali e sembra ormai accettato da tutti il modello generale che ho ipersemplificato all'inizio.
Ma nonostante l'analisi che si è fatta dei processi che sottostanno alle varie fasi in cui si è distinto il processo della lettura sembra rimanere fuori il cardine della comprensione: il significato. Infatti a dispetto del fervido dibattito filosofico sul concetto di significato che si è avuto nel nostro secolo in filosofia, la psicologia sembra muoversi ancora senza interrogarsi su di esso ed accettandone di fatto un visione riduttiva che può essere assimilata a quella stoica per cui c'è un isomorfismo tra il linguaggio e la realtà.
Un termine corrisponde ad un oggetto, si analizzano i processi che portano dalle caratteristiche fisiche dell'oggetto al recupero, da un apposito magazzino, dell'informazione semantica. Viene messo in evidenza da più parti come questo magazzino consista di una fitta rete di interconnessioni tra i vari concetti, o simboli, o significati. Sembrerebbe, anche se non viene mai detto esplicitamente, che il significato emerga, consista proprio di quest'intreccio. Ogni termine ha senso in relazione agli altri. I problemi sorgono quando ci si interroga sulla relazione tra questi termini e la "fisicità" degli oggetti rappresentati. Che relazione c'è tra un oggetto ed il termine che lo rappresenta? E quale relazione possiamo trovare tra un termine ed il suo significato? E cos'è di preciso il significato, cosa intendiamo con questo termine?
Sono domande troppo grandi perché si possa pretendere di dare una risposta definitiva, ma è sicuramente giunto il momento di impostare una risposta, di iniziare un cammino che avvicini alla comprensione di tali questioni.
Il punto fondamentale, ci sembra, è che con la visione simbolico-formale si ritiene che sia la sintassi del linguaggio e comunque delle regole a guidare le decisioni, il ragionamento, certamente queste possono essere tratte a posteriori, ma possono funzionare fino ad un certo punto, con innumerevoli eccezioni, quello che guida le decisioni nella realtà è la semantica. Riteniamo che quando noi ragioniamo non applichiamo delle regole a dei simboli, ma mutiamo il significato che diamo ai termini del ragionamento.
Ciò che ha portato fuori strada è l'attenzione esclusiva per il linguaggio, o meglio il partire da esso per studiare il significato. Ma in esso compare solo un aspetto del significato non si può ridurre tutta la sua complessità a dei segni che rimandano a degli oggetti. In questo modo si rischia, come è appunto avvenuto, di identificare il significato con quei segni, o di considerarlo qualcosa che si attacca ad essi, una loro proprietà. Se accettiamo invece che il significato è anteriore al linguaggio, che anzi dobbiamo studiarlo prima al di fuori di esso dove è più semplice, più vicino alla "fisicità", per poi seguire lo sviluppo che può aver avuto con il linguaggio, abbiamo un modo nuovo per capire meglio anche quest'ultimo.
I significati, al di là delle parole che fanno riferimento ad essi, sono fluidi, sfumano uno nell'altro, ma nel momento in cui li etichettiamo limitiamo, in parte, queste sfumature. Il significato di una parola è insomma un caso molto particolare, un caso limite che fa sfuggire le caratteristiche principali di questa entità, sarebbe quindi fuorviante prenderlo come prototipo e partire da esso come è stato fatto. In verità, a ben vedere, neanche nel linguaggio i significati sono così ben delimitati come potrebbe far pensare il guardare alle parole singole. Nell'uso comune le unità di significato non sono le singole parole, ma le proposizioni, o intere frasi, è dalle relazioni tra le parole che nasce il significato complessivo, in intere frasi c'è quella stessa possibilità di sfumare significati che c'è nel significato preverbale. Riteniamo quindi che il tentativo di giungere ad un "significato" complessivo partendo dal significato di singole parole sia, in questo senso, sbagliato in partenza. Un'obiezione ovvia è che sia nel leggere che nell'ascoltare abbiamo a che fare con una parola alla volta, ma ciò è inesatto per due motivi: prima di tutto chi ascolta o legge tende a completare le frasi nel modo che è più frequente che si completino, per poi andare a cercare attivamente verifiche all'ipotesi formulata, la percezione infatti non è né passiva, né esaustiva, si cercano attivamente conferme (tra le molte cose a conferma di ciò si vedano i lavori di Carpenter e coll. sui movimenti oculari durante la lettura). In secondo luogo le unità di percezione non sono le parole, ma gruppi di esse e la grandezza di questi gruppi è data proprio dall'esperienza, in altre parole la capacità di farsi un'idea completa da un minor numero di elementi, di completare adeguatamente con meno elementi si sviluppa con la pratica avendo un maggior numero di esempi su cui fare le proprie previsioni.
L'ipotesi da cui si parte è, dunque, una concezione fenomenologica del significato e una critica della visione di esso come di qualcosa di staccato, di indipendente dal segno che ad esso rinvia. Si propone quindi, dopo averne analizzato diverse concezioni, una visione che fa tesoro del dibattito filosofico, ma che ha un proposito principalmente pratico. Infatti l'intendere il significato come qualcosa che sta dietro il simbolo, che può essere depositato e recuperato da un "magazzino", ma che non si può definire, ha mostrato la sua aridità proprio sul piano pratico, nella difficoltà di farlo corrispondere agli oggetti della "realtà". Nel campo dell'Intelligenza Artificiale è infatti emerso come un problema sempre più ineludibile il distacco tra l'universo dei simboli e la realtà concreta. Si è cercato di riavvicinare queste due realtà, ma il problema era alla base, nell'avere legato artificialmente un simbolo ad un oggetto, invece di fare in modo che questo legame sorgesse da sé, con l'esplorazione dell'ambiente, così come avviene negli organismi reali. Le stesse difficoltà sono state incontrate nella psicologia cognitiva, che condivide con l'AI la medesima metodologia e da cui l'Intelligenza Artificiale ha tratto i modelli della mente umana. In genere non ci si sofferma sulla questione contando che sarà risolta in seguito, o "rimuovendola" semplicemente.
Quest'ipotesi alternativa sul significato viene quindi esposta in maniera teorica ed operativa nel secondo capitolo, per poi tentare una prima superficiale verifica sperimentale con la simulazione i cui risultati sono esposti nel sesto. Prima di arrivare a questa verifica però è necessario illustrare gli strumenti utilizzati, si parlerà quindi nel quarto capitolo delle reti neurali e nel quinto della vita artificiale, infatti la simulazione è fatta con un organismo artificiale, il cui sistema nervoso è costituito da una rete neurale, che deve apprendere a muoversi in un ambiente artificiale. Nel terzo capitolo si esamina dal punto di vista teorico analizzando alcuni studi sulla semantica per verificare la compatibilità di questa ipotesi con i dati disponibili.
La definizione più generale che possiamo trarre dalla filosofia è che il significato è l'ambito di realtà richiamato da un segno. Un segno, nel senso più generale della parola, è un oggetto che ha la funzione di richiamarne un'altro.
Adotteremo la terminologia utilizzata da Charles Morris (1938, 1946) che è ormai comunemente adottata nello studio dei segni e dell'attività simbolica in genere.
Il processo per cui qualcosa funziona da segno viene detto semiosi. La semiosi implica la correlazione di quattro elementi: il veicolo segnico, il designatum, l'interpretante e l'interprete.
Una categoria speciale di segni sono da considerare i simboli, nei quali esiste un particolare rapporto analogico con l'oggetto designato.
In ambito più strettamente linguistico si intende per significato il contenuto semantico o senso di un segno linguistico. Il termine semantica (che indicava anticamente, in medicina, la scienza che valuta i sintomi delle malattie) fu introdotto da Locke in filosofia per indicare lo studio dei segni linguistici. Morris (1938 e 1946) ha introdotto la distinzione in:
sintattica che studia le relazioni dei segni tra di loro;
semantica, che studia le relazioni dei segni con gli oggetti cui sono applicabili;
pragmatica che, oltre alle relazioni dei segni con i significati studia le relazioni dei segni con gli interpreti.
Nella linguistica e filosofia contemporanee sono state messe in evidenza diverse distinzioni tra i molteplici aspetti del significare, tanto che è stata messa in dubbio la stessa legittimità di parlare di significato come di una nozione unitaria. Ferdinand De Saussure (1916) ha distinto significato naturale e convenzionale affermando che il segno linguistico ha una connessione arbitraria e convenzionale con il suo referente, mentre quello naturale è una connessione di tipo logico tra due eventi. I segni convenzionali agiscono come segnali che avvertono l'interlocutore, che condivide quelle stesse regole, ad esplorare in determinate direzioni il comune universo di linguaggio. Mentre il significato naturale è caratterizzato da una connessione causale (ho la febbre significa che sto male). Inoltre si possono distinguere vari tipi di significati convenzionali a seconda che le connessioni siano legate alla struttura fonologica, alle strutture sintattiche, alla semantica, alla pragmatica, alla storia culturale, all'ordinamento sociale, al contesto. In Regole e rappresentazioni Chomsky (1980) ha sostenuto che la maggior parte di questi tratti semantici e pragmatici non appartengono alla linguistica ed alla sua specificazione formale del significato.
E' utile anche distinguere tra ciò che il parlante, il ricevente e l'osservatore disinteressato potrebbero assumere per detto come di significati diversi che possono coincidere, ma non sono necessariamente la stessa cosa. Inoltre si può distinguere la referenza letterale (cosa, fatto) dal senso (intenzione, proposizione) che determina tale referenza psicologicamente o astrattamente.
Cenni al dibattito filosofico
Gli stoici consideravano il significato effetto di un isomorfismo tra il discorso e la realtà rappresentata dallo stesso, sarebbe proprio questa corrispondenza a permettere la comunicabilità ed a garantire l'oggettività.
Questa sembra essere la posizione della scienza cognitiva in genere, che non si interroga sulla natura del significato, ma si limita a dare per scontata questa corrispondenza tra un segno e un oggetto. Anche se questa posizione non è mai espressa esplicitamente, ciò lascia intendere, analogamente alla posizione stoica, che il significato si riduca al legame tra il veicolo segnico ed il designatum, tra il linguaggio e la "realtà".
Una posizione simile è sostenuta esplicitamente da Hofstadter (1979) "la percezione di isomorfismi è ciò che crea i significati nella mente umana". Ma il fatto di considerare il significato frutto di un isomorfismo "percepito" e non oggettivamente presente pone questa prospettiva decisamente nella nostra epoca, consapevole dell'impossibilità di parlare di un'isomorfismo vero e proprio tra la rappresentazione ed il rappresentato. Infatti ciò presupporrebbe la possibilità di percepire l'oggetto al di là della rappresentazione, proprio mentre si afferma una distinzione tra ciò che si percepisce e la sua rappresentazione.
Hofstadter, pur senza entrare nel merito del dibattito filosofico, mostra come il significato (fenomenologicamente potremmo dire), non è solo nel significante, ma nella prospettiva del percepiente che trova un isomorfismo tra esso ed un altro oggetto. Questo modo di intendere il significato può essere esteso al di là del linguaggio e perfino dell'essere umano. Infatti, nella sua prospettiva, anche una cellula decodifica dei significati quando interpreta il suo DNA, trovando (ed attualizzando) un isomorfismo tra delle combinazioni delle basi e delle proteine. La sua posizione però sembra riferibile solo ad alcuni significati e sembra, per altri aspetti, rifarsi piuttosto ad una visione platonica del significato che, nel dibattito medioevale, sarebbe stata considerata realista.
E' proprio nella scolastica che si sono mostrate con più chiarezza le diverse posizioni possibili riguardo alla natura del significato, quelle stesse che possiamo intravedere già nella filosofia greca e che ritroviamo ancora oggi (anche se con il superamento di alcune difficoltà date dal porre erroneamente le questioni).
Nella scolastica il dibattito era riguardo alla natura degli universali, le posizioni che si contrapponevano erano quella realista idealista (che si rifà a Platone) che considera l'universale, il concetto qualcosa di reale, avente natura propria al di là della propria esistenza in quanto contenuto mentale e quella nominalista per la quale l'aspetto universale è rappresentato solo dal nome, dal semplice suono della parola che lo esprime (flatus vocis). Tra queste due posizioni si inserisce quella concettualista per la quale il concetto ha una sua esistenza puramente mentale.
Questa disputa presupponeva una distinzione tra due aspetti del significato: la significatio che è il riferimento di un termine ad un oggetto e la suppositio (posizione in luogo di) che è il valore particolare che il segno assume per la sua posizione nel periodo, per l'uso che se ne fa. Questa distinzione equivale a quella che J. S. Mill ha fatto tra la funzione denotativa (che corrisponde alla significatio) e connotativa. Un segno che denota qualcosa sta solo ad indicare un oggetto, la funzione connotativa di un segno apporta invece connotazioni, cioè informazioni sulle qualità di un oggetto.
Anche G. Frege (1892) ha fatto lo stesso tipo di considerazioni distinguendo tra senso (in tedesco sinn) e significato (in tedesco bedeutung, aspetto connotativo). Nella terminologia della logica si fa riferimento alla stessa distinzione parlando di estensione ed intensione (termini che hanno anch'essi origine nella scolastica): l'estensione è l'insieme delle cose per le quali il termine è vero, alle quali si può applicare; l'intensione è ciò che sta dietro questa possibilità di estensione, potremmo dire il concetto, l'idea che è suscitata dal termine.
Frege proponendosi la creazione di una «scrittura di concetti», in opposizione al «linguaggio naturale» (1893-1903), prendeva in considerazione solo la denotazione, affermando che il suo residuo (il senso), ciò che ha a che vedere con il pensiero, non ha a che fare con il valore di verità di un enunciato, ritenendo, quindi, possibile delimitare "l'insieme delle estensioni di un dato enunciato". Ma, come altri dimostreranno in seguito, sia l'intensione che l'estensione sono difficilmente precisabili quando si ha a che fare effettivamente con un termine (o un enunciato). Infatti non si può definire con precisione quali sono gli oggetti che fanno parte dell'estensione di un termine e quali no, vi sono oggetti sulla cui appartenenza si può non essere d'accordo anche per termini di uso molto comune (una sedia senza una gamba è ancora una sedia ?). L'intensione crea ancora più problemi poiché, per la maggior parte dei termini, esistono molte intensioni diverse, per ovviare a ciò nella logica le diverse intensioni vengono considerate termini diversi rappresentati dalla stessa parola, ma distinguibili da degli indici invisibili (ma è comunque difficile precisare quanti indici ha un determinato termine).
Rudolf Carnap e Ludwig Wittgenstein inizialmente sembra che abbiano considerato solo un aspetto del significato per poi completare il quadro in un secondo tempo. Infatti Carnap prima (1934) considera il significato solo in relazione alla connessione tra segni, come problema esclusivamente sintattico-formale, a prescindere dal riferimento agli eventi del mondo (quindi solo connotazione). In seguito (1947) colloca il significato nel rapporto tra linguaggio e fatti extra linguistici distinguendo tra denotazione (o rapporto estensionale del riferimento agli oggetti - semantico secondo la terminologia di Morris ripresa da Carnap) e senso (o rapporto intenzionale dell'attribuzione - pragmatico). In questo modo non si riferisce più ad un linguaggio ideale ma considera il linguaggio uno "strumento" che deve essere il più semplice e conveniente possibile.
Lo stesso cambio di prospettiva troviamo in Wittgenstein. Nel Tractatus logico-philosophicus (1921) afferma che le proposizioni, la cui totalità costituisce il linguaggio, significano i fatti o eventi, la cui totalità costituisce il mondo. Le proposizioni, quindi, hanno senso in rapporto all'esistenza o meno di fatti atomici (o stati di cose) raffigurati nelle proposizioni stesse; e una proposizione è vera se il fatto raffigurato sussiste. La struttura del linguaggio deve quindi essere isomorfa a quella del mondo ed il significato sussiste finché è mantenuto l'isomorfismo. In seguito (1967), considerando le parole strumenti in un contesto di operazioni, ha affermato che parlare è un'attività istituzionalizzata: gli usi espressivi e comunicativi danno luogo a sistemi molteplici di codificazione. I vari usi danno vita a vari giochi linguistici, infatti l'uso delle parole in un determinato contesto, con determinate regole ha come effetto delle reazioni comportamentali nella comunità linguistica come le mosse in un gioco. Per la costituzione del significato sono dunque rilevanti le attività extralinguistiche. L'uso delle parole non è più limitato alla denotazione (che è solo uno dei giochi linguistici), né c'è più l'obbligo del riferimento al linguaggio ideale.
Con il suo ripensamento, Wittgenstein (mostrando l'importanza dell'uso e dei fattori contestuali extralinguistici nel determinare il significato) supera l'illusione implicita di poter creare un linguaggio assolutamente isomorfo alla realtà purificando quello comune dall'arbitrarietà di ciò che non è verificabile o confermabile.
L'interesse sia di Carnap che di Wittgenstein (come di tutto il circolo di Vienna - o neopositivismo logico) per il significato nasceva da un'esigenza pratica, quella di distinguere gli enunciati significanti da quelli che non lo sono (che equivaleva a dire le affermazioni scientifiche da quelle metafisiche).
In questo modo si proponevano di delimitare l'ambito delle cose di cui ha senso parlare da quelle prive di senso, cioè non verificabili. Così la nozione di significatività venne a coincidere con quella di verificabilità, anche se fu in seguito mitigata. Lo stesso Carnap, infatti, introdusse il concetto di confermabilità in Confermabilità e significato (1936-37) dove teorizza che una proposizione è confermabile, se enunciati osservativi possono contribuire negativamente o positivamente alla sua conferma. Perché un enunciato fosse significativo, in questo modo, non era più assolutamente necessario che fosse verificabile, almeno virtualmente, ma poteva bastare che fosse confermabile. Lo stesso comprendere il significato di una frase si può ricondurre, in questa prospettiva, al conoscere sotto quali condizioni essa è vera.
Altro principio che sta alla base della teoria del significato neopositivista è quello della possibilità della riduzione degli enunciati significativi al dato sensoriale, ad esclusione degli enunciati analitici, che sono veri di per sé per la relazione in cui si trovano i termini che li compongono (enunciati della matematica, della logica o frasi particolari come la classica: tutti gli scapoli sono non sposati). La concezione neopositivista è più una ridefinizione del termine significato che una teoria su di esso come osserva Hilary Putnam:
"La teoria verificazionista è stata fin dall'inizio nient'altro che un'accattivante ridefinizione [...] La solita risposta del positivista che la teoria verificazionista del significato è una «esplicazione», e che una esplicazione non deve necessariamente concordare con l'«uso preanalitico» dell'explicandum, è in malafede. Il «metodo della verificazione» non è una esplicazione del concetto di significato quale è usato nella teoria linguistica e nella vita di ogni giorno, e in realtà, come si è visto, non è stato concepito per essere usato in questa chiave" (Putnam, 1975, pag. 146).
E' stato fatto notare, inoltre (principalmente da W.V.O. Quine), che la verifica riguarda in realtà l'intera teoria, non è possibile in linea di principio verificare un enunciato isolato. Da ciò deriva anche che un cambiamento nel significato di un termine implica un cambiamento in tutta la teoria (o almeno in un insieme dei suoi enunciati difficilmente delimitabile). Questo ha provocato la conseguenza che alcuni (tra cui lo stesso Quine) hanno abbandonato le nozioni di cambiamento di significato, di identità di significato e addirittura quella di significato.
Putnam tenta di superare queste difficoltà proponendo una teoria del significato che comprende molte componenti tra cui soprattutto lo stereotipo (teoria causale del significato): "sembra preferibile prendere una strada diversa, e identificare il «significato» con una coppia ordinata (o eventualmente una n-upla ordinata) di entità una delle quali è l'estensione" (Putnam, 1975, pag. 270). Putnam riprende da J. Fodor (1968) e J. Katz (1975), il concetto di indicatore semantico.
Gli indicatori semantici sono delle caratteristiche di un termine che hanno una particolare centralità che, pur non facendo escludere del tutto la possibilità di una loro revisione (in quanto questa è sempre possibile per ogni caratteristica), la rende particolarmente improbabile. Esempi possono essere «animale» per tigre o «giorno della settimana» per venerdì; questi indicatori hanno per la semantica la stessa funzione che hanno indicatori tipo «aggettivo» o «nome concreto» per la sintassi. A tali indicatori va affiancata una lista di «differenziatori» per ottenere le condizioni necessarie e sufficienti per l'appartenenza all'estensione del termine. Putnam non accetta la possibilità di fissare condizioni necessarie e sufficienti per l'appartenenza di un'estensione al termine, ma considera gli indicatori semantici una delle componenti del significato:
"La mia proposta è che la descrizione in forma normale del significato di una parola dovrebbe essere una sequenza finita, o «vettore», tra i cui componenti dovrebbero figurare senza dubbio i seguenti (sarebbe forse auspicabile avere anche altri tipi di componenti): (1) gli indicatori sintattici che valgono per quella parola, ad esempio «nome» ; (2) gli indicatori semantici che valgono per quella parola, ad esempio, «animale», «periodo di tempo»; (3) una descrizione delle caratteristiche aggiuntive dello stereotipo, se ce ne sono; (4) una descrizione dell'estensione. Di questa proposta fa parte la convenzione secondo cui tutti i componenti del vettore rappresentano un'ipotesi sulla competenza del singolo parlante, ad eccezione dell'estensione" (Putnam, 1975, pagg. 294-295).
Sul fatto che l'estensione è determinata socialmente c'è oggi ampio consenso: posso sapere che cos'è l'oro, averne il concetto pur non sapendo determinare se un metallo molto simile sia effettivamente oro e non un'imitazione, ma vi sono dei parlanti esperti che saprebbero determinarlo.
Accanto a questa linea di pensiero che parte dal tentativo di creare un linguaggio scevro dalle ambiguità di quello naturale e finisce per scoprire come è la stessa naturalità, l'uso, la combinazione dell'interazione sociale e di quella "fisica" che dà vita al significato, possiamo individuarne un'altra che parte proprio da questa intuizione (e che forse ha sulla prima la stessa funzione che si assume abbia la filosofia nei confronti della scienza).
In essa si parte dalla percezione globale del significato come prospettiva privilegiata di lettura della realtà, invece che cercare di ricostruirne la natura dopo averne analizzato le componenti, sezionando i processi semantici e pragmatici che vi sottostanno.
Possiamo considerare suo punto di partenza la fenomenologia con cui Edmund Husserl si proponeva di fondare tutte le scienze sui dati intuitivi, sulla percezione delle «cose stesse», liberata dalle influenze, dai condizionamenti, dai pregiudizi delle precedenti conoscenze (epoché).
"Il mondo-della-vita come tale non è forse l'universalmente noto, l'ovvietà che inerisce a qualsiasi vita umana, ciò che nella sua tipicità ci è già sempre familiare attraverso l'esperienza ? [...] Il mondo della vita è un regno di evidenze originarie: Ciò che è dato in modo evidente è, a seconda dei casi, «esso stesso» dato nella percezione, e cioè esperito nella sua presenza immediata, oppure è ricordato nella memoria. Tutti gli altri modi di intuizione sono presentificazioni di questo «esso stesso». Qualsiasi conoscenza mediata che rientri in questa sfera, o, per parlare più in generale, qualsiasi modo di induzione ha il senso di un induzione di qualcosa che è intuibile, di qualcosa che è possibile percepire «in persona» o ricordare in quanto già-stato-percepito, ecc. Qualsiasi verifica pensabile riconduce a questi modi dell'evidenza, perché l'«esso stesso» (dei singoli modi) sta in queste intuizioni come un elemento realmente esperibile e verificabile in modo intersoggettivo, e non è una sustruzione concettuale; mentre d'altra parte, qualsiasi sustruzione concettuale, almeno in quanto pretende di essere vera, può attingere la sua reale verità soltanto riportandosi a queste evidenze. Certo uno dei compiti più importanti della penetrazione scientifica del mondo-della-vita, è quello di valorizzare il diritto originario di queste evidenze, la loro dignità di evidenze capaci di fondare la conoscenza rispetto a quella delle evidenze logico obiettive." (Husserl, Edmund 1954, pagg. 154-157).
Husserl, quindi, considerava l'uomo immerso in un universo di significati interpretati (o più esattamente creati) incessantemente dall'intensione.
Il concetto di intensione è ripreso da Brentano (di cui Husserl aveva seguito le lezioni di psicologia descrittiva), in base ad esso ogni atto mentale contiene sempre una «direzione verso l'oggetto», non può essere considerato isolatamente da esso, la coscienza è sempre coscienza di qualcosa. L'oggetto non è né reale, né ideale, ma intensionale, ossia frutto di una correlazione intensionale tra l'oggetto e la coscienza. Quello che viene esperito in un dato momento, l'«essenza» di una situazione, di un oggetto è il suo significato. Ciò vale anche per il linguaggio, nel segno linguistico infatti, Husserl distingue due componenti: l'indice e l'espressione, il primo riguarda l'aspetto comunicativo che ha il segno, la capacità, appunto, di indicare, la componente denotativa potremmo dire; l'espressione è invece la funzione significativa del segno, la sua capacità di rimandare all'essenza, ad un senso ideale anteriore alla sua espressione.
Risente fortemente di questa prospettiva (anche se si proponeva ad un certo punto come di rottura rispetto ad essa) quella di Martin Heidegger che considera l'uomo (1927) un ente che è aperto al mondo e che stabilisce con il mondo una rete di relazioni che danno significato al mondo. Insiste, quindi, sull'aspetto sociale del significato, sulla capacità del linguaggio, in quanto «uso sociale» dei significati, di «creare» la realtà in cui l'uomo vive.
"L'esserci - dice Heidegger - è sempre nel mondo, il solo modo di essere dell'esserci è di essere nel mondo. E' in questa relazione che il mondo appare come un sistema di significati organizzati. Essere nel mondo vuol dire quindi essere definiti dalle relazioni concrete che si intrattengono con le cose. [...] L'esserci vi è solo come esserci nel mondo ma «il mondo» è a sua volta solo questa strumentazione di oggetti che circoscrivono l'orizzonte dell'esserci-uomo. Le cose-strumenti significano dei progetti, delle possibilità di esistenza che sono storicamente determinate [...] Il primo modo d'essere dell'esserci nel mondo [...] è un rapporto affettivo. [...] Vi è una «precomprensione emotiva», [...] la conoscenza e' un lavoro che avviene sul materiale della precomprensione, è un modo diverso di organizzare gli elementi che costituiscono la precomprensione stessa. [...] Il linguaggio è il solo modo di essere - il significato - che hanno le cose per gli uomini. Imparare ad usare un linguaggio con i significati che vi sono sedimentati e che hanno quel senso determinato per tutti coloro che lo parlano, significa essere in un mondo, parteciparvi, riprodurlo. Non siamo quindi «noi» che usiamo il linguaggio secondo scopi che possiamo ideare, ma è il linguaggio che ci costruisce il mondo con finalità, strumenti, valori determinati.".
Maurice Merleau-Ponty riprende più genuinamente la prospettiva di Husserl e, per gli aspetti che ci interessano, sviluppa e rende esplicite intuizioni che erano già nella sua filosofia. L'essere nel mondo-della-vita, la concretezza dell'esperienza, viene specificata da Merleau-Ponty che sottolinea l'importanza del corpo nell'esperire, trascurata proprio perché così familiare, scontata:
"La coscienza scopre d'altra parte, in particolare nella malattia, una resistenza del corpo proprio. Poiché una ferita agli occhi è sufficiente a sopprimere la vista, ci accorgiamo di vedere attraverso il corpo. Poiché una malattia basta a modificare il mondo fenomenico, ci accorgiamo che il corpo è uno schermo tra noi e le cose."(Merleau-Ponty, 1942, pag. 305).
Merleau-Ponty distingue, infatti, tra körper, il corpo inteso fisiologicamente, oggetto tra gli altri (visto dal di fuori potremmo dire) ed il corpo quale apertura verso il mondo leib, più che strumento "attraverso" cui percepiamo come precisa meglio più avanti:
"Non si può paragonare l'organo ad uno strumento, come se esistesse e potesse essere pensato indipendentemente dal complesso delle funzioni [...] La mente non utilizza il corpo, ma si fa attraverso di esso pur trasferendolo fuori dello spazio fisico. [...] Percepisco le cose direttamente senza che il mio corpo faccia da schermo tra loro e me; anche il mio corpo, come le cose, è un fenomeno, dotato, certamente, di una struttura originale che me lo presenta come un intermediario tra il mondo e me, benché non lo sia di fatto" (Merleau-Ponty, (1942), pagg. 335 e 351).
Il corpo, inteso in questo modo, permette di superare quell'inconciliabilità teorica tra il mondo dei significati e quello delle cose vissute. Infatti si comprende come può l'uomo avere esperienza immediata di cose che hanno per lui un significato, il quale non giunge successivamente dopo un'elaborazione, o effetto della combinazione di qualcos'altro ("il solo modo, per una cosa, di agire su di una mente, è di offrirle senso, di manifestarlesi "), come inutilmente si è cercato di mostrare.
" Se la conoscenza, anziché essere la presentazione al soggetto di un quadro inerte, è l'apprensione del senso di questo quadro, la distinzione del mondo oggettivo dalle apparenze soggettive non corrisponde più ad un distinzione tra due specie di essere, ma a quella di due significati, e, in quanto tale, è inattaccabile. Nella percezione io colgo la cosa stessa, poiché ogni cosa alla quale si possa pensare è un «significato di cosa», e perché viene appunto detto percezione l'atto in cui questo significato si rivela a me." (Merleau-Ponty, 1942, pagg. 320- 321)
La lezione principale che possiamo apprendere da queste considerazioni è che dovremmo andare oltre il concetto di rappresentazione, invece di immaginare il significato come qualcosa che si riproduce nel percepente, dovremmo vederlo come una modalità di rapporto tra il percepente ed una porzione di realtà.
Questa stessa posizione è sostenuta, in maniera molto più particolareggiata, da Varela, Thompson e Rosch (1991). Gli autori distinguono tra due concezioni di rappresentazione: un'accezione debole indicante una interpretazione, l'attinenza di qualcosa a un'altra cosa, essa non presuppone nessuna distinzione tra realtà interna e realtà esterna a chi percepisce; una accezione forte che vede la rappresentazione come qualcosa che può essere recuperata, come una ricostruzione di aspetti ambientali esistenti di per se al di fuori del percepente. Questa concezione ha guidato le ricerche cognitiva per molto tempo, ma ora, fanno notare Varela, Thompson e Rosch questo atteggiamento va cambiando in conseguenza delle molte difficoltà portate da questo modo di porre la cognizione. L'idea di una mente in cui entra informazione, viene elaborata e ne escono azioni o altra informazione va mutando in una concezione della stessa vista come automodificantesi in conseguenza delle interazioni dell'organismo con l'ambiente.
"Non ha senso parlare del cervello come se fabbricasse pensieri come le fabbriche fanno automobili. La differenza è che il cervello usa processi che modificano se stessi, e che quindi non possono venir separati dai prodotti che essi producono. In particolare il cervello fabbrica ricordi, che modificano il modo in cui penseremo in seguito. L'attività principale del cervello consiste nell'apportare modifiche a se stesso. (Minsky, 1986, pag 563)
Ciò rientra nel concetto di chiusura operazionale (Varela, 1979), secondo il quale un sistema è operazionalmente chiuso quando il risultato dei suoi processi coincide con quegli stessi processi.
"Tali sistemi non funzionano attraverso rappresentazioni. Invece di rappresentare un mondo indipendente, essi producono un mondo come dominio di distinzioni inscindibile dalla struttura incarnata del sistema cognitivo." Varela, Thompson e Rosch (1991, pag. 171).
Gli Autori fanno notare, quindi, come sia necessario superare ogni residuo di distinzione cartesiana tra realtà esterna e realtà interna. Se si fa artificiosamente questa distinzione non è più possibile in seguito ricomporre le parti e si rimane con una cognizione separata dalla realtà "oggettiva".
Per fare ciò si deve innanzitutto superare la necessità di un fondamento, cioè di dover avere come punto fermo su cui poggiare la propria epistemologia, o la realtà esterna, o quella interna, ma di riconoscere il loro reciproco determinarsi e definirsi.
"Gran parte della filosofia occidentale si è interessata al problema di dove si debba cercare un fondamento ultimo, ma non a quello di mettere in discussione o di acquistare consapevolezza di questa tendenza ad attaccarsi ad un fondamento.[...] Il Madhyamica riconosce esplicitamente il legame tra assolutismo e nichilismo. Le nostre narrazioni etnocentriche ci insegnano che l'interesse per il nichilismo - nella sua precisa accezione nietzscheana - è un fenomeno occidentale dovuto, fra gli altri motivi, al crollo del teismo nel diciannovesimo secolo e al sorgere del modernismo. [...] Nell'ambito della pratica tradizionale buddista della consapevolezza e della presenza, la motivazione è stata quella di sviluppare una comprensione diretta e stabile dell'assolutismo e del nichilismo quali forme di attaccamento conseguenti al tentativo di trovare un io-sé stabile, limitando pertanto il nostro mondo vissuto all'esperienza della sofferenza e della frustrazione. Imparando progressivamente ad abbandonare questa tendenza all'attaccamento, si può cominciare ad apprezzare come tutti i fenomeni siano liberi da qualsiasi fondamento assoluto e come tale "infondatezza" (sunyata) sia la struttura stessa dell'origine codipendente.
Da un punto di vista fenomenologico, potremmo affermare pressappoco lo stesso dicendo che l'infondatezza è la condizione stessa del mondo dell'esperienza umana, così riccamente intessuto e interdipendente.[...] L'infondatezza si rivela nella cognizione come "senso comune", e cioè nel sapere come comportarci in un mondo che non è stabile e prefissato, ma continuamente forgiato dalle azioni nelle quali ci impegniamo."( pagg.175-176).
"In realtà, se si desidera recuperare il senso comune, allora si deve invertire l'atteggiamento rappresentazionista e trattare il know-how contesto-dipendente non come un artefatto residuo che possa essere gradualmente eliminato con la scoperta di regole più sofisticate, ma, in realtà, come l'essenza stessa della cognizione creativa" (pag.179).
Per recuperare questo senso comune, a parere di Varela, Thompson e Rosch, bisogna superare proprio questo concetto di rappresentazione vista o come qualcosa che si proietta all'esterno (posizione soggettivista), o come qualcosa che ricostruisce ciò che è esterno (posizione oggettivista). La cognizione va invece vista come azione incarnata:
"usando il termine incarnata intendiamo mettere in risalto due idee: in primo luogo, il fatto che la cognizione dipende dal tipo di esperienza derivante dal possedere un corpo con diverse capacità sensomotorie, e in secondo luogo, il fatto che tali capacità sensomotorie individuali sono esse stesse incluse in un contesto biologico, psicologico e culturale più ampio. Usando il termine azione intendiamo porre l'accento ancora una volta sul fatto che, nella cognizione vissuta, i processi sensori e motori, la percezione e l'azione, sono fondamentalmente inscindibili. In realtà, negli individui, i due aspetti non sono solamente legati in modo contingente, ma si sono anche evoluti in modo parallelo."(pag. 206)
Introducono quindi il concetto di enazione (o produzione di un mondo) tramite il quale illustrano la loro concezione della cognizione:
"l'approccio enattivo implica due concetti: (1) la percezione consiste in un'azione a sua volta guidata dalla percezione e (2) le strutture cognitive emergono dagli schemi sensomotori ricorrenti che consentono all'azione di essere guidata percettivamente."(pag. 206)
In questo modo risulta evidente come sia artificioso non solo distinguere i vari processi mentali, ma anche la cognizione in generale dall'azione.
E' fondamentale tener presente come il pensiero sia essenzialmente una modifica di relazioni ottenuta con un'automodificazione. Un'azione è percepita da un osservazione come una modifica di relazioni tramite una modificazione dell'esterno, ma è ottenuta anch'essa tramite un'automodificazione. La cognizione è dunque un caso particolare di azione (in quanto è un'azione il cui effetto è solo quello di modificare l'organismo che ha prodotto questa particolare azione senza modifiche visibili dall'esterno). L'azione vera e propria si ha quando c'è anche questa modificazione esterna, d'altra parte essa può essere considerata un caso particolare di cognizione.
Dunque siamo andati a cercare i fondamenti filosofici di un concetto che usiamo in psicologia e torniamo in modo naturale alla nostra scienza, proprio nell'intento di chiarine meglio la natura.
Nel prossimo capitolo ci soffermeremo appunto sugli aspetti psicologici di questo concetto e ne proporremo una concezione che ribadisce essenzialmente quella suggerita da Varela, Thompson e Rosch.