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Il Significato
Che cos'e' il significato? Il significato e' normalmente "di" qualcosa: il significato di questo libro, il significato di un certo gesto, il significato della vita.Le scienze tradizionali studiano fenomeni che non sono "di" null'altro. Il moto dei pianeti attorno al Sole, o la composizione chimica dell'oro, o l'esplosione demografica dell'India non riguardano null'altro. La scienza deve spiegare questi fenomeni sotto diversi punti di vista, ma non deve spiegare a cosa si riferiscono. Il linguaggio e il pensiero hanno invece la prerogativa di essere sempre "circa" qualcosa. Le frasi precedenti, per esempio, riguardavano (fra l'altro) il sistema solare, l'oro e l'India. L'"intenzionalita'" del linguaggio fa si' che una scienza del linguaggio debba essere intrinsecamente diversa da tutte le altre scienze. Oltre a descrivere i meccanismi che regolano questo fenomeno, infatti, deve anche identificare a cosa si riferisce, ovvero quale sia il suo "contenuto semantico".
Il linguaggio, inoltre, ha un'altra proprieta' che lo rende diverso da ogni altro fenomeno naturale. Il linguaggio fa uso di simboli, e questi simboli possono essere combinati in un numero virtualmente infinito di maniere. Nonostante cio' e' sempre possibile determinare quale sia il contenuto semantico di una combinazione, anche quando la combinazione (la "frase") non era mai stata usata prima. Molto probabilmente il lettore non aveva mai incontrato prima in vita sua nessuna delle frasi di questo libro, eppure le ha capite tutte (spero).
I simboli che vengono usati e il modo in cui quei simboli vengono combinati determina il contenuto semantico della frase ("principio di composizionalita'"). Una scienza del significato deve allora studiare tre fenomeni distinti: 1. come un simbolo possa avere contenuto semantico; 2. come il contenuto semantico di un insieme di simboli sia funzione del contenuto semantico di ciascun simbolo; 3. come abbia origine nella mente il processo cognitivo tramite cui viene costruito il contenuto semantico di un insieme di simboli.
Un fenomeno paradossale rende ancor piu' problematica la ricerca del significato: e' infinitamente piu' facile spiegare il significato di una frase che non il significato di ciascuna delle sue parole. Per esempio, la frase "Vincenzo ha detto a Giusi che arrivera' tardi per cena" e' facilissima da capire; ma bisogna pensare molto piu' a lungo per spiegare cosa significa "dire", "arrivare" e persino "tardi".
La Logica e' "estensionale" nel senso che la verita' di un'espressione dipende unicamente dagli oggetti a cui si riferisce (dalla sua estensione), non dal suo significato (dalla sua intensione). In altre parole i simboli di un linguaggio "estensionale" rappresentano oggetti o proprieta' di oggetti, e ogni frase composta di tali simboli esprime una verita' o una falsita' relativa a tali oggetti o a tali proprieta'. "Piero Scaruffi e' italiano" esprime una proprieta' di Piero Scaruffi che e' vera.
I linguaggi estensionali soddisfano la cosiddetta "legge di Leibniz": se in una frase si sostituisce un termine con un altro termine che fa riferimento allo stesso oggetto si conserva la verita' (o la falsita') della frase. Se al posto di "Piero Scaruffi", scriviamo "L'autore di questo libro" otteniamo ancora una frase vera: "L'autore di questo libro e' italiano".
E' pero' dubbio se la nuova frase abbia ancora lo stesso significato dell'originale. E' di Meinong il paradosso degli oggetti inesistenti: la frase "L'unicorno non esiste" e' contraddittoria, in quanto afferma che l'unicorno non esiste, ma al tempo stesso il termine "L'unicorno" si riferisce all'unicorno, e pertanto indirettamente ne postula l'esistenza. Una variante venne scoperta anche da Russell: "L'unicorno vola" e' falsa perche' l'unicorno non e' tra gli oggetti che volano, ma il suo opposto "L'unicorno non vola" e' anche falsa, in quanto l'unicorno non e' neppure fra gli oggetti che non volano, e cio' contraddice la legge secondo cui una frase e' vera se il suo opposto e' falso.
Un altro paradosso e' di Frege stesso: la frase "Piero Scaruffi e' l'autore di questo libro" dovrebbe essere equivalente alla frase "Piero Scaruffi e' Piero Scaruffi", in quanto "Piero Scaruffi" e "L'autore di questo libro" si riferiscono, per definizione, allo stesso oggetto; e' intuitivo, invece, che le due frasi non esprimono lo stesso significato. Frege risolse il paradosso distinguendo il "senso" (cioe' l'intensione) dal "referente" (cioe' l'estensione) di un termine: mentre il "referente" e' l'oggetto a cui si fa riferimento, il "senso" e' il modo in cui il referente ci viene presentato. "Piero Scaruffi" e "L'autore di questo libro" hanno due sensi diversi e potrebbero benissimo avere due referenti diversi, ma, controllando la prima pagina, il lettore si puo' rendere conto che hanno invece lo stesso referente, e la frase "Piero Scaruffi e' l'autore di questo libro" esprime appunto questo fatto.
Il "senso" di Frege svolge pertanto due ruoli: mette in relazione il linguaggio con la realta' e il linguaggio con la mente; funge cioe' da intermediario fra la realta' e la mente. Il ruolo duale del senso emerge dal celebre esempio della frase "la stella del mattino e' la stella della sera", la quale e' vera in quanto oggi sappiamo che entrambe queste stelle sono Venere, ma i Babilonesi non lo sapevano e per loro si trattava di due oggetti distinti.
Nella sua teoria delle descrizioni Russell risolse quei paradossi imponendo che tutte le descrizioni (come quella di "Piero Scaruffi e' l'autore di questo libro") vengano trasformate in espressioni esistenziali (se esiste un X ed esiste un Y tali che l'autore di Y e' X e Y e' questo libro, allora X e' Piero Scaruffi). In particolare, sono ammessi soltanto gli oggetti esistenti e "L'unicorno vola" diventa "Esiste almeno un unicorno e quell'unicorno vola" (falsa), il cui contrario e' "Non esiste alcun unicorno oppure quell'unicorno vola" (vera).
Per risolvere altri due celebri paradossi, quello del barbiere (se un barbiere fa la barba a tutti i barbieri che non si fanno la barba da soli, quel barbiere si fa la barba da se'?) e quello del bugiardo (se dico che "questa frase e' falsa", questa frase e' vera o falsa?) Russell formulo' una "teoria dei tipi", con la quale sostanzialmente si evita che una proposizione possa far riferimento a una proprieta' di se stessa: una funzione e' specificata soltanto se sono definiti i suoi parametri (fra i quali non puo' esservi la funzione stessa); le funzioni risultano cosi' organizzate in una gerarchia; un tipo e' l'insieme degli oggetti che possono essere parametri delle funzioni di un certo livello gerarchico; non ha senso mescolare oggetti di tipo diverso.
Russell fece notare quanto poco conti l'estensione: siccome non sono sposato, l'espressione "la moglie di Piero Scaruffi" non ha alcuna estensione, ma ha un significato intuitivo e la logica la tratta alla stregua di qualsiasi espressione dotata di estensione.
Frege studio' anche un caso che viola la legge di Leibniz: i verbi "sapere", "credere" e "pensare" seguiti da una frase non permettono piu' di sostituire un termine con un termine dallo stesso referente. Per esempio, se "Cinzia sa che Giusi ha trent'anni", e Giusi e' la moglie di Vincenzo, non e' necessariamente vera la frase, apparentemente equivalente: "Cinzia sa che la moglie di Vincenzo ha trent'anni". Cinzia potrebbe non sapere che Giusi e' la moglie di Vincenzo e in tal caso non saprebbe rispondere alla domanda "Quanti anni ha la moglie di Vincenzo?" pur sapendo rispondere alla domanda "Quanti anni ha Giusi?" Per conservare la legge di Leibniz, Frege introdusse un'altra distinzione: fra il senso e il referente "abituali" e il senso e referente "indiretti". Questa distinzione e' necessaria in tutti i casi di "contesto opaco", come quelli di "sapere", "credere" e "pensare". Il referente indiretto di un termine e' allora il suo senso abituale. La legge di Leibniz vale ancora per quanto riguarda il referente indiretto: i referenti indiretti di "Giusi" e di "la moglie di Vincenzo" sono infatti diversi e pertanto non possono essere scambiati.
Frege identifica il referente di una frase nel suo valore di verita': tutte le frasi vere si riferiscono all'oggetto "Vero" e tutte le frasi false si riferiscono all'oggetto "Falso". Per scoprire il referente di un insieme di frasi basta ricordare che la logica e' "funzione della verita'" ("truth-functional"): la verita' di un'affermazione composta (per esempio, "Piero Scaruffi e' l'autore di questo libro oppure Roma e' la capitale della Francia") e' funzione della verita' delle sue componenti (la verita' di "Piero Scaruffi e' l'autore di questo libro" e la verita' di "Roma e' la capitale della Francia"). Anche un insieme di frasi ha come possibili referenti soltanto "Vero" o "Falso".
Sarebbe, naturalmente, piu' intuitivo identificare il referente di una frase nella "situazione" descritta dalla frase. Ma Frege era un logico ed escogito' una definizione che consentisse di applicare anche al linguaggio il potente apparato della Logica. Con questa definizione Frege riconduce ogni frase del linguaggio a una funzione che associa un insieme di parole con un valore di verita'.
Il "senso" della frase, a sua volta, e' un'entita' oggettiva che puo' essere condivisa da piu' di una frase (per esempio dalla stessa frase scritta in un'altra lingua).
Due frasi con lo stesso senso hanno, in generale, anche lo stesso referente, come e' intuitivo aspettarsi. Ma esiste almeno un'eccezione, che da' luogo a un altro piccolo paradosso: se due frasi esprimono lo stesso pensiero, come possono essere l'una vera e l'altra falsa? Si pensi pero' alle frasi "The first character of this sentence is a T" e "La prima lettera di questa frase e' una T", che sono l'una la traduzione dell'altra e pertanto dovrebbero avere anche lo stesso senso: invece la prima esprime una verita', la seconda una falsita'.
E che dire delle frasi che in una lingua hanno un senso ben preciso e vero, come per esempio "Questa frase e' lunga trentasette caratteri", e in un'altra sono addirittura impossibili? In Inglese nessun numero consente di dire "This sentence is ... characters long". E' intuitivo che in qualsiasi lingua questa frase abbia un senso (ogni frase e' composta da un ben definito numero di lettere), eppure e' impossibile costruire una frase di questo tipo in Inglese che sia vera.
Che il valore di verita' non possa portare al significato e' dimostrato anche da un esempio di Lycan: la frase "se una cosa e' stata zipprodata, quella cosa e' stata zipprodata" e' una tautologia e pertanto certamente vera, ma cio' non ne determina il suo significato, che infatti rimane oscuro a tutti noi. Si possono costruire numerose frasi che non significano assolutamente nulla, ma che hanno un valore di verita' ben definito. Se un essere onnisciente mi fornisse il valore di verita' di ogni componente di una frase scritta in un linguaggio che non conosco, alla fine potrei costruire il valore di verita' "composto" di quella frase, ma ancora non saprei cosa significa. E davanti a termini come "ciclotrone" non e' neppure chiaro chi li "capisca": la frase "a Stanford c'e' un ciclotrone" mi e' chiara anche se non so cosa sia un ciclotrone, ma e' certamente "piu'" chiara a un fisico e ancora piu' chiara a un fisico di Stanford. Esistono, insomma, gradazioni di significato che una teoria referenziale non sembra essere in grado di spiegare.
Wittgenstein si rese conto che il fulcro di una teoria del significato doveva essere il modo in cui le parole modellano il mondo. Esattamente come una carta geografica riproduce una certa zona del mondo in quanto le sue figure si riferiscono a luoghi e le relazioni fra quelle figure si riferiscono alle relazioni fra quei luoghi, una frase rappresenta qualcosa del mondo in quanto le parole che la compongono si riferiscono ad alcuni oggetti e le relazioni fra quelle parole si riferiscono alle relazioni fra quegli oggetti.
Il primo grande critico dell'analisi referenziale fu proprio Wittgenstein, il quale a un certo punto ripudio' l'idea che il linguaggio si possa ridurre a una serie di riferimenti ad oggetti. Il linguaggio e' anche, e soprattutto, prassi verbali. Uno stesso termine puo' essere usato in modo diverso a seconda che il contesto sia una domanda, un ordine, un racconto, una bestemmia, un saluto, una barzelletta, ... E' piu' importante il tipo di frase che non la definizione del termine, tanto piu' che certi termini (per esempio, "gioco") non sono definibili per nulla ("gioco" e' sia gli scacchi sia il calcio, sia il ciclismo sia il solitario di carte). In generale e' possibile definire soltanto la somiglianza fra oggetti (gli scacchi, il calcio, il ciclismo e il solitario di carte formano una rete di somiglianze piu' o meno come i membri di una famiglia).
Secondo Ryle e' sempre necessario riferire un concetto all'insieme di concetti all'interno del quale e' applicabile: per esempio, il mondo dei fisici, fatto di particelle e forze, appartiene ad un universo di discorso diverso da quello del senso comune, fatto di oggetti e moti, e cosi' i concetti applicabili al primo non sono necessariamente applicabili al secondo e viceversa.
Austin ebbe l'idea di trattare il linguaggio come un tipo particolare di azione. Esattamente come esistono azioni di moto, Austin postula che esistano anche azioni di parlato. Austin riconobbe, pero', che ogni espressione verbale (o "utterance") causa tre diversi tipi di atti (o "speech acts"): un atto locutorio (le parole che impiega), un atto illocutorio (il tipo di azione che compie: avvertire, ordinare, promettere, domandare, etc) e un atto perlocutorio (l'effetto che la frase ha sull'ascoltatore: convincerlo, farlo rispondere, farlo diventare amico, etc). Searle ha a sua volta classificato gli atti illocutori in diverse categorie, fra cui atti direttivi (ovvero comandi), atti assertivi (dichiarazioni), atti commissivi (per esempio, promesse), atti permissivi e atti proibitivi. La logica classica funziona soltanto con gli assertivi.
E' interessante anche il metodo di ricerca impiegato da Austin per indagare un qualsiasi argomento filosofico. Basandosi sul suo concetto di linguaggio, Austin ritiene che prima di tutto si debba studiare come il linguaggio viene adoperato dalla gente nel contesto di quel particolare argomento. E cio' deve essere fatto senza farsi condizionare da alcun ragionamento, semplicemente raccogliendo i fatti a disposizione, un po' come un investigatore deve raccogliere in maniera oggettiva e imparziale tutti gli elementi utili alla sua indagine prima di cominciare a trarre delle conclusioni. Una volta costruita questa "base di conoscenza" relativa a come il linguaggio viene usato in quel dominio specifico, il filosofo puo' iniziare a costruire la sua teoria.
Implicito nella teoria di Austin era il fatto che certe condizioni sono propedeutiche a far si' che un atto locutorio abbia una particolare forza illocutoria e dia origine a un particolare atto perlocutorio. Per esempio, io chiedo a qualcuno di fare qualcosa se ho interesse che quella cosa venga fatta, se ritengo che quel qualcuno la sappia fare, e se penso che la mia richiesta lo indurra' a farla.
Searle intraprese l'opera di costruire una teoria di queste "condizioni" che presiedono alla genesi degli atti di parlato.
In pratica si direbbe che una forma di "buon senso" presieda al modo in cui gli esseri umani utilizzano gli atti del parlato. Secondo Grice alla base del linguaggio e' una forma di cooperazione fra coloro che lo parlano, per cui di fatto una conversazione e' sempre un atto collaborativo. Grice identifico' quattro massime che governano questa cooperazione: massima di quantita' (chi parla fornisce la massima quantita' possibile di informazione, ma non piu' di quanta necessaria); massima di qualita' (chi parla dice la verita'); massima di relazione (chi parla dice cose che sono rilevanti per l'argomento di cui si sta conversando); massima di maniera (chi parla cerca di essere il piu' chiaro possibile). Chi viola queste massime confonde il suo interlocutore. Queste massime sono le convenzioni stabilite per una trasmissione corretta ed efficiente di informazione fra due esseri dotati di linguaggio.
Un caso particolarmente interessante di comunicazione e' quello delle "implicazioni conversazionali" (conversational implicatures) che si verificano quando chi parla fa ricorso a queste massime per compiere un atto illocutorio. Per esempio, se la domenica vedo una persona sostare disperata davanti a un'edicola chiusa e gli dico "il giornalaio della stazione e' aperto", gli sto indirettamente indicando dove puo' comprare un giornale. E' grazie al contesto che quell'atto locutorio diventa anche un ben preciso atto illocutorio.
Le osservazioni di Grice si possono riassumere in un principio generale di razionalita': scegliere sempre gli atti di discorso che ottengono lo scopo con il costo minimo e nella maniera piu' efficace. E questo principio non vale soltanto per gli atti di discorso, ma per tutte le azioni si un essere razionale.
Secondo Quine non e' possibile stabilire la verita' di un'affermazione in virtu' del significato delle sue parole. Le parole non hanno un significato assoluto; hanno un significato soltanto rispetto all'insieme delle altre parole con cui sono connesse nelle frasi che assumiamo essere vere. Non solo: il loro "significato" (se cosi' vogliamo chiamarlo) puo' persino cambiare nel tempo, nel senso che, non essendo legato rigidamente a oggetti del mondo, puo' adattarsi a meglio servire l'esperienza. Il processo di scoperta consiste proprio nel modificare quella "rete" di connessioni fra le parole, alterandone in tal modo il "significato". Per dimostrare che il significato delle parole non e' fisso, Quine porta l'esempio della traduzione, sia da una lingua all'altra sia da una persona all'altra nella stessa lingua. Si possono costruire infiniti manuali di traduzione, e infinite regole di interpretazione, senza che esista un metodo deterministico per decidere quale sia quella piu' giusta.
La teoria dell'indeterminatezza di Quine ha origine nel campo scientifico. Dato un dato empirico, esiste un numero infinito di teorie che lo possono spiegare. Man mano che confrontiamo queste teorie con altri dati empirici, possiamo eliminare quelle che non risultano coerenti con la realta', ma comunque ne rimangono sempre un numero infinito. La scienza decide di scegliere quella che sembra piu' appropriata, o semplicemente quella che e' diventata di moda. Non e' possibile stabilire quale sia la migliore di due teorie che differiscono in parti non verificabili con l'esperienza. Siccome esistera' sempre un numero infinito di dettagli non verificabili con l'esperienza, esisteranno sempre infinite teorie di pari validita'.
Un caso particolare e' quello del linguaggio, in cui il dato empirico e' il discorso e la teoria e' il suo significato. Esistono infinite interpretazioni di un discorso a seconda del contesto in cui ci si pone; se ogni parola avesse un significato ben preciso, la somma dei loro significati fornirebbe una interpretazione unica del discorso e questo inconveniente non si verificherebbe; ergo la singola parola non ha un significato; il suo referente e' "inscrutabile". Quine arriva a suggerire che il significato del linguaggio non sia neppure nella mente dell'agente che lo parla, ma che esso vada studiato piuttosto come un fenomeno naturale in relazione al mondo di quell'agente.
Da un lato pertanto Quine e' un verificazionista: il significato di un'affermazione e' il metodo con cui la si verifica empiricamente. Dall'altro e' un olista: l'unita' di significato e' data dalla scienza nel suo complesso, ovvero la verifica di un'affermazione all'interno di una teoria dipende a sua volta dall'insieme di tutte le affermazioni della teoria. Mettendo insieme i due punti di vista si ottiene che ogni affermazione di una teoria determina parzialmente il significato di ogni altra sua affermazione. Il significato di una frase e' la sua posizione nella rete.
Churchland ha interpretato la "rete" di significati di Quine sotto forma di uno spazio degli stati semantici, le cui dimensioni sono date da tutte le proprieta' osservabili. Ogni espressione del linguaggio equivale a definire la posizione di un concetto all'interno di questo spazio, in maniera coerente con le proprieta' che tale concetto esibisce secondo quell'espressione.
Recentemente Putnam ha fatto notare che il significato ha un'identita' nel tempo (e' un'entita' storica, come una persona o una nazione), ma non nella sua essenza (per esempio, la quantita' di moto, che fra Newton e Einstein non e' piu' la stessa cosa, benche' esprima lo stesso concetto). I concetti di un individuo non sono entita' scientifiche e dipendono dall'ambiente fisico e sociale in cui vive quell'individuo. Per esempio, la maggioranza degli individui pensa di sapere cosa sia l'oro, ma non saprebbe spiegare cosa esso sia, e anzi si rivolge a un gioielliere quando vuole stabilire se un pezzo di metallo giallo e' oro o meno. Un chimico sa che l'oro e' il settantanovesimo elemento della tavola periodica; ma, se dovessimo scoprire che la scienza ha sbagliato a contare gli elettroni dell'atomo di oro, la fede di Vincenzo continuerebbe ad essere fatta d'oro, e pertanto quello non puo' essere il significato della parola "oro", ovvero il chimico non ne sa piu' degli altri. Persone diverse usano criteri diversi per decidere cosa e' oro, e la maggioranza della popolazione umana non usa alcun criterio. Non avrebbe comunque senso affermare che soltanto una parte della popolazione umana (chimici, gioiellieri, ladri, minatori o altri) sa cosa sia l'oro, perche' in realta' tutti sappiamo cosa sia. Secondo Putnam non e' vero che ogni singolo individuo possieda nella propria mente tutto cio' che serve per comprendere il referente di una parola (l'oggetto a cui quella parola si riferisce); esiste invece una divisione di competenze fra gli esseri umani e il referente di una parola emerge dalla loro cooperazione (insomma dai criteri di tutti). Il referente di una parola e' determinato da fattori sociali e da fattori ambientali; il significato non si trova nella mente. (Per inciso, il significato non e' piu' necessario se non per ragioni di traduzione da una lingua all'altra.)
L'olismo si presta comunque a diverse critiche. Per esempio, Dummett fa notare che l'olismo non riesce a spiegare come un individuo possa apprendere il linguaggio: se il significato di una frase esiste soltanto in relazione con l'intero insieme di frasi del linguaggio, non e' mai possibile apprendere la prima frase; ne' come si possa capire il significato di una teoria, se il suo significato e' dato dall'intera teoria e non dalle sue singole componenti, mentre cio' che possiamo usare sono proprio soltanto le sue singole componenti.
Secondo Davidson Tarski ha semplicemente sostituito alla nozione universale e intuitiva di "verita'" una serie infinita di regole che definiscono la verita' in un linguaggio relativamente alla verita' in un altro linguaggio. Putnam aggiunge che in questo modo la definizione di verita' dipende dal significato delle parole del linguaggio e ogni definizione di verita' dovrebbe elencare tutte le condizioni da cui dipende tale significato, non ultima la definizione stessa di verita' che si sta cercando di definire.
Davidson preferisce allora capovolgere un po' le idee di Tarski, assumendo che il concetto di verita' non abbia bisogno di essere definito, ma anzi sia dato a tutti, e usando la teoria corrispondenziale per definire il significato: il significato di una frase e' definito da cio' che sarebbe se la frase fosse vera. Se la frase "Piero Scaruffi e' italiano" fosse vera, allora Piero Scaruffi sarebbe italiano: e questo e' allora il significato della frase "Piero Scaruffi e' italiano". Davidson si pose il problema di come generare tutte le meta-frasi (dette anche "T-frasi") per tutte le frasi del linguaggio, sapendo che infiniti insiemi di frasi potrebbero soddisfare i requisiti di correspondenzialita'. In altre parole, quale teoria della verita' e' anche un'appropriata teoria del significato?
A questo proposito anche Davidson assume che il linguaggio serva a trasmettere informazione e che pertanto il parlante e l'ascoltatore condividano un principio fondamentale di rendere il piu' efficiente possibile tale trasmissione. Questo "principio di carita'" ("principle of charity") asserisce che l'interpretazione da scegliere e' quella in cui il parlante sta dicendo il maggior numero possibile di affermazioni vere. Durante la conversazione l'ascoltatore tenta allora di costruire una interpretazione nella quale ogni frase del parlante venga accoppiata a una frase (nel proprio linguaggio) equivalente in verita' o falsita'.
Cio' corrisponde alla divisione che Putnam compie fra stati psicologici in senso stretto (quelli che non presuppongono l'esistenza di altri, come il dolore) e stati psicologici in senso largo (quelli che presuppongono l'esistenza di altri, per esempio che Dario ama Cinzia). E secondo Putnam ha senso soltanto studiare i primi (da cui il suo "solipsismo metodologico"").
Una variante della posizione di Fodor e' quella di Block, il quale ritiene che esista invece un solo significato, e che tale significato sia proprio l'insieme ordinato di contenuto stretto e contenuto largo, ma ridefinisce il contenuto stretto come un "ruolo concettuale" (laddove, seguendo Sellars, un ruolo e' una proprieta' puramente sintattica, riferita al modo in cui viene usato il linguaggio, secondo regole astratte, piu' o meno come succede nei sistemi formali). Il significato di un'espressione e' allora dato dal suo ruolo nel linguaggio. Sulla base di questi ruoli concettuali Block definisce poi una relazione di similarita' (quando due termini hanno lo stesso ruolo concettuale, sono simili; quando hanno anche lo stesso contenuto largo, hanno significato simile) che rimpiazza quello di identita'.
Anche Dretske ha avanzato una teoria a due fattori: il primo (l'"indicatore", ovvero quella che Dretske aveva precedentemente chiamato "informazione") e' relativo alle relazioni causali con gli stati esterni (per esempio, i cerchi nel tronco di un albero sono indicatori dell'eta' dell'albero), mentre il secondo esprime le dipendenze esistenti fra gli stati interni in una maniera che riflette le variazioni nel mondo esterno. In tal modo Dretske tenta anche di spiegare come si stabilisca la relazione sistematica che esiste fra i due fattori. Affinche' un fattore possa essere considerato un indicatore deve esistere una relazione causale fra di esso e cio' che e' indicato: se l'albero non avesse quell'eta', non ci sarebbero quei cerchi nel tronco.
In questo modo Fodor ovvia ai problemi sollevati da Frege e Putnam riguardo la relazione fra significato e referenza, che Fodor stesso aveva adattato anche al caso dei computer: e' possibile che due computer, programmati da due programmatori diversi per svolgere due compiti diversi (per esempio, l'uno per calcolare la superficie dell'Italia e l'altro per predire quanti figli avra' Vincenzo) eseguano esattamente le stesse istruzioni e vengano a trovarsi sempre negli stessi stati, benche' i loro risultati, espressi nella stessa forma binaria, vengano interpretati dai rispettivi programmatori in maniera diversa (per esempio, entrambi potrebbero alla fine rispondere 3, ma il primo programmatore sa che il risultato esprime la superficie in centinaia di migliaia di chilometri quadrati, mentre il secondo sa che il risultato esprime il numero di figli che Vincenzo avra'). Cio' che la macchina calcola dipende anche da qualcosa che non si trova nella macchina, ma nelle intenzioni del programmatore, ovvero dall'interpretazione che l'osservatore ne compie.
Comunque sia le teorie duali del significato riprendono un po' la visione di Frege e assumono che esistano due "tipi" di significato, uno nella mente e uno nel mondo.
Queste frasi non sono "estensionali", nel senso che non soddisfano la legge di Leibniz. Per esempio, la frase "e' necessario che un pentagono abbia cinque lati" e' vera, ma la frase "e' necessario che il Pentagono abbia cinque lati" e' falsa (avrebbero potuto costruire quell'edificio in qualsiasi forma), benche' "la forma del Pentagono" e "pentagono" si riferiscano allo stesso oggetto.
Queste frasi sono interpretabili nella semantica dei modelli ("model-theoretic") di Kripke. Il primo a concepire il nostro mondo come uno dei mondi possibili fu Leibniz, ma il primo a dare un rigoroso fondamento logico a questa intuizione fu Kripke. Un'affermazione che e' falsa in questo universo puo' benissimo essere vera in un altro mondo. Pertanto i valori di verita' di una frase sono sempre relativi a un particolare mondo.
Nella semantica dei mondi possibili una proprieta' e' necessaria se in tutti i mondi e' vera, una proprieta' e' possibile se esiste almeno un mondo in cui e' vera. "Piero Scaruffi e' italiano" e' possibile, non necessaria; "Piero Scaruffi e' Piero Scaruffi" e' necessaria. Queste definizioni sono estremamente utili nel diagnosticare i cosiddetti "controfattuali", ovvero frasi ipotetiche del tipo "Se non fossi Piero Scaruffi, sarei francese" (non ha molto senso domandarsi se questa frase sia "vera" o "falsa": e' pero' "possibile").
Mentre la teoria dei modelli di Tarski e' puramente estensionale (per ogni modello il significato di un predicato e' determinato dall'elenco degli oggetti per cui e' vero), la logica "modale" di Kripke e' intensionale: primo perche' tratta possibilita' che non esistono e potrebbero non esistere mai, e poi perche' nella semantica dei mondi possibili le definizioni estensionali sono impossibili in quanto l'insieme di oggetti e' infinito.
Nello scenario dei mondi possibili i nomi costituiscono pero' un grave problema. Il nome e' infatti semplicemente la proprieta' attribuita a un individuo all'atto della sua nascita: identificare quella persona con quel nome e' scorretto se si pensa che esistono infiniti mondi possibili (o "possono esistere infiniti mondi", come si preferisce) in cui quella persona non ha quel nome ed infiniti mondi in cui la persona con quel nome non e' la persona che noi conosciamo con quel nome! Secondo Kripke i nomi propri non hanno un "senso" (nell'accezione di Frege), ma soltanto un referente. Lo stesso vale per nomi comuni come "acqua" o "stella", che designano certi oggetti a cui qualcuno, in epoca lontana, ha dato quei nomi, e ormai funzionano come designatori senza tener conto delle proprieta' degli oggetti che designano (in un altro mondo l'acqua potrebbe essere solida e la stella potrebbe essere visibile soltanto di giorno). Anche i nomi comuni di questo genere, pertanto, hanno referente ma non senso. Servono a far riferimento a un oggetto, ma non alle sue proprieta'.
Se il nome seleziona un oggetto a prescidere dalle proprieta' di tale oggetto, come viene stabilita la relazione fra quel certo nome e quel certo oggetto? Un nome e' legato a un oggetto da una "catena causale" di eventi, insomma "per ragioni storiche": quando un lettore usa l'espressione "Piero Scaruffi" indica me in virtu' del fatto che ha letto il libro scritto da me (esiste una catena causale che porta da Piero Scaruffi al concetto di Piero Scaruffi che e' nella testa del lettore); quando uso la parola "acqua", faccio riferimento al tipo di materiale a cui qualcuno in passato ha assegnato quel nome.
Il senso di Frege (ne' la somiglianza di Wittgenstein, o qualunque altro concetto relativo alle proprieta' dell'oggetto) non ha alcuna parte in questo processo di identificazione, che avviene unicamente sulla base dell'associazione originale fra nome e oggetto. La gente si tramanda oralmente la convenzione che quel nome si riferisce a quell'oggetto. Il referente di un termine dipende dal mondo con cui sono causalmente connesso.
Quando Dario dice a Cinzia "Ti amo", dice una frase che e' stata pronunciata da milioni di persone, ogni volta con lo stesso significato. Ma al tempo stesso quella frase detta da Dario ha un significato che puo' avere soltanto se detta da Dario a Cinzia: ovvero che Dario ama Cinzia, e questo non e' lo stesso significato che quella frase avrebbe se fosse detta da Vincenzo a Giusi.
In altre parole una frase ha due significati, uno che e' indipendente dalla situazione in cui viene pronunciata, e che dipende unicamente dalla sua struttura, e una invece che dipende anche dalla situazione.
Al tempo stesso la frase "Dario mi ama" detta da Cinzia esprime lo stesso senso di "Ti amo" detta da Dario a Cinzia; ma le due frasi potrebbero originare da due stati psicologici completamente diversi (per esempio, Dario potrebbe essere innamorato di Cinzia, ma Cinzia potrebbe non ricambiarlo).
Addirittura la frase "Io ho ragione, tu hai torto" detta da me a Dario o viceversa, pur essendo sempre la stessa identica frase, che ha lo stesso identico (e intuitivo) significato, esprime due sensi diametralmente opposti.
Il contesto determina gran parte del significato di una frase.
Infine, alcune parole significano quel che significano per due ragioni concomitanti, una linguistica (che quella particolare parola e' stata storicamente associata a quel particolare oggetto) e una fisica (che quel particolare oggetto e' quel particolare oggetto). Per esempio, la parola "pianeta" potrebbe significare qualcos'altro se la storia dell'Italiano fosse stata diversa, ma potrebbe significare qualcos'altro ancora se la storia dell'universo fosse stata diversa. L'ambiguita' che si genera e' fra interpretazione e rappresentazione (problema della "fattorizzazione"). Kaplan aveva gia' notato che i fatti del mondo intervengono due volte nella relazione fra significato e verita': l'interpretazione di una frase dipende da come e' fatto il mondo, ma la verita' di quella frase dipende a sua volta da quanto bene la sua interpretazione riflette il modo in cui e' fatto il mondo.
Per risolvere questi tre problemi semantici (la granularita', il contesto e la fattorizzazione), Barwise ha proposto la semantica situazionale, nella quale proprieta' e relazioni non vengono espresse tramite qualcos'altro ma sono delle primitive. Una situazione e' descritta da un insieme di relazioni fra oggetti. Un significato e' la relazione fra diversi tipi di situazione.
Barwise si ispira al "realismo ecologico" di Gibson, secondo il quale l'informazione ha origine dall'interazione fra l'organismo e il suo ambiente: il tipo di una situazione e' determinato dalle uniformita' che essa esibisce; le uniformita' sono quelle proprieta' tipiche di un organismo, che hanno avuto origine dall'adattamento al proprio ambiente e che ne definiscono il comportamento in quell'ambiente; sono queste uniformita', queste somiglianze fra le successive situazioni in cui si viene a trovare, che consentono all'organismo di dare un senso al divenire del mondo. Queste uniformita', a loro volta, sono comprese da tutti i membri della specie, da un'intera "comunita' linguistica".
Le stesse attitudini proposizionali risultano essere relazioni nei confronti di situazioni.
Se il significato di una frase e' un fatto relativo alla sola frase, da un insieme di frasi e' possibile derivare soltanto quell'informazione che consegue logicamente da quelle frasi (da "Dario ama Cinzia" e "Cinzia e' la moglie di Dario" possiamo derivare l'informazione che "Dario ama sua moglie"); ma se il significato e' invece una relazione fra frasi e situazioni, da un insieme di frasi e' possibile estrarre molta piu' informazione. Per esempio, sapendo che Dario e Cinzia avevano appena litigato, possiamo anche dedurne che hanno fatto la pace e non hanno divorziato. L'inferenza e' il processo tramite cui l'informazione implicita in una situazione viene resa esplicita.
I mondi possibili possono essere espressi tramite situazioni, ma non viceversa. Le situazioni sono inoltre piu' flessibili dei mondi possibili, sia perche' non devono essere necessariamente coerenti sia perche' non devono necessariamente essere massimali. E queste proprieta' riflettono molto piu' fedelmente quelle degli stati mentali. .bp
E' certamente vero che la quantita' di idee originali e' molto piccola rispetto alla quantita' di carta stampata. Questi filosofi hanno pero' messo in luce alcuni aspetti che sono cruciali per comprendere il funzionamento del pensiero umano:
Austin J. (1962): How to do things with words (Oxford Univ Press) Barwise J. (1983): Situations and attitudes (MIT Press) Block N. (1981): Imagery (MIT Press) Churchland P. (1979): Scientific realism and the plasticity of mind (Cambridge Univ Press) Davidson D. (1984): Inquiries into truth and interpretation (Clarendon Press) Dretske F. (1988): Explaining behavior (MIT Press) Dummett M. (1973): Frege: Philosophy of language (Harper & Row) Fodor J. (1992): Meaning Holism (Basil Blackwell) Fodor J. (1990): A theory of content (MIT Press) Gibson J. (1979): The ecological approach to perception (Houghton Mifflin) Grice H. (1975): Logic and conversation (in "Speech Acts", Academic Press) Kaplan D. (1989): Themes from Kaplan (Oxford Univ Press) Kripke S. (1963): Semantical considerations on modal logic (Acta Philosophica Fennica n. 16) Lycan W. (1984): logical form in natural language (MIT Press) Putnam H. (1975): Mind, language and reality (Cambridge Univ Press) Putnam H. (1988): Representation and reality (MIT Press) Quine W. (1960): Word and object (MIT Press) Quine W. (1961): From a logical point of view (Harper & Row) Quine W. (1969): Ontological relativity (Columbia Univ Press) Russell B. (1962): An inquiry into meaning and truth (Penguin) Ryle G. (1949): The concept of mind (Hutchinson) Searle J. (1969): Speech acts (Cambridge University Press) Tarski A. (1944): The semantic conception of truth (Philosophy and phenomenological research n.4 p.341) Wittgenstein L. (1953): Philosophical investigations (Macmillan)