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HEIDEGGER, HUSSERL E LA FILOSOFIA DELLA MENTE

Conversazione con Hubert L. Dreyfus


La persona non è né cosa, né sostanza, né oggetto...
La persona è sempre data come esecutrice di atti intenzionali,
raccolti in una unità di senso.

(M. Heidegger, Essere e tempo, 1927, 5 10, p. 70 -71)

Dalla filosofia alle scienze cognitive

Hubert L. Dreyfus (Stati Uniti, 1929), studioso del pensiero di Heidegger e di Husserl, certamente più vicino alla tradizione "continentale" che non a quella analitica, si è occupato di scienze cognitive e di filosofia della mente in maniera alquanto singolare.

Prima di diventare professore di filosofia all'università di Berkeley in Californía, Dreyfus ha insegnato per diversi anni al Massachusetts Institute of Technology, tempio degli studi di intelligenza artíficiale. Fu dunque al MIT che Dreyfus, entrando in contatto con i padri dell'intelligenza artificiale, come Allen Newell e Herbert A. Simon, si è avvicinato a tali discipline e ha elaborato la convinzione che, contrariamente a ciò che inizialmente riteneva, cioè che esse fossero totalmente antifilosofiche, queste andavano in realtà a toccare temi e problemi della tradizione filosofica occidentale.

Dreyfus è giunto a sottolineare le strette connessioni tra filosofia, scienze cognitive e intelligenza artificiale, partendo da una considerazione di fondo: la tradizione di pensiero cui si riferiscono gli scienziati cognitivi è il razionalismo filosofico, ovvero proprio quella tradizione messa fortemente in questione da autori come Heidegger e Merleau-Pointy.

La visione della mente, che emerge dalla prospettiva dell'intelligenza artificiale, è fondamentalmente razionale, risolutiva di problemi e governata da regole. Essa rientra pienamente nella tradizione razionalista e intellettualistica che va da Cartesio a Leibniz a Kant e a Husserl.
A Dreyfus appare dunque evidente che, se l'intelligenza artificiale avesse ragione, se la mente fosse effettivamente soltanto razionalità e capacità di calcolo, anche la tradizione filosofica si confermerebbe corretta. Ma, se essa fallisce, si dimostra invece corretta la critica di Wittgenstein, Heidegger e Merleau-Pointy, alla pretesa che le rappresentazioni mentali siano completamente controllabili da leggi scientifiche.

Bersaglio critico dell'attacco di Dreyfus all'intelligenza artificiale è dunque il tentativo di ridurre la mente a pura razionalità teoretica, a capacità di calcolo, a intelligenza meccanica. Il problema, come già evidenziavano Husserl e Heidegger, sta esattamente nella complessità del concetto di ragione umana, che è molto più esteso di quanto il razionalismo ritenga, e non è facilmente riducibile a rappresentazioni determinabili da regole ristrette e meccaniche.

E' interessante notare come, più o meno negli stessi anni in cui il cognitivismo e l'intelligenza artificiale elaboravano le tesi del rappresentazionalismo, la tradizione filosofica idealista e razionalista, cui essi facevano riferimento, veniva totalmente sovvertita.

Le Ricerche filosoficbe di Wittgenstein furono pubblicate nel 1953, poco prima che Newell e Simon cominciassero a sostenere la teoria delle rappresentazioni simboliche. E già nel 1927, in Essere e Tempo, Heidegger, partendo dall'indagine filosofica dell'ontologia tradizionale, era giunto ad una critica devastante del concetto stesso di "rappresentazione", ritenuto inadeguato ad esprimere l'autenticità dell'esistenza, l'esserci (Dasein) dell'uomo.

L'esserci, il Dasein e la critica all'intelligenza artificiale

Dreyfus ritiene che il programma di ricerca del cognitivismo, se pure affascinante, stia dunque procedendo nella direzione errata, in quella direzione che, dopo Wittgenstein e Heidegger, il pensiero filosofico non può più percorrere nell'illusione di poter dare una descrizione puramente razionale e meccanica della mente umana, e dell'uomo stesso.

In What Computers Can't Do: The Limits of Artificial Intelligence (1972), Dreyfus ha messo in evidenza come il punto debole delle tesi del cognitivismo e dell'intelligenza artificiale stia proprio nella mancanza di un'analisi filosofica fondazionale dei concetti di "rappresentazione" e di "regola". Questi sono dati per scontati, e utilizzati nella descrizione dei fenomeni mentali. L'idea che i calcolatori funzionino semplicemente seguendo dei programmi e delle regole, e che essi stessi possano manipolare simboli rappresentazionali, è un'idea brillante e attraente, ma completamente errata. Considerare il calcolatore come un "sistema fisico simbolico", capace di fornire rappresentazioni simboliche del mondo, significa per Dreyfus riproporre un modello filosofico intellettualistico e riduttivo, quando questo risulta ormai invalidato e decaduto.

Se pensiamo all'uomo come ad un "animale razionale", capace di risolvere problemi e di agire in base a desideri e credenze, come la tradizione ha fatto sin da Aristotele, la teoria della mente che ne conseguirà sarà una teoria descrittiva delle capacità razionali dell'uomo, intese innanzitutto come capacità di scelta tra alternative, manipolazione di simboli e come adeguamento a regole prefissate. Esattamente ciò che anche un calcolatore è in grado di riprodurre e simulare.

Ma se pensiamo all'uomo come essere umano, come esistenza, come Dasein, se pensiamo cioè all'uomo dalla prospettiva ontologica indicata da Heidegger, la teoria della mente che ne consegue è molto più ampia e complessa, e non è riducibile a modelli formali, per quanto sofisticati essi possano essere.

Rompendo con la tradizione epistemologica iniziata con Cartesio, Heidegger ha dato avvio all'indagine ontologica della realtà, trasformando la questione riguardante la relazione tra conoscenza e oggetto conosciuto, nella questione del rapporto tra il nostro essere ciò che siamo e il nostro essere nel mondo. Heidegger propone un vero e proprio rovesciamento del celebre punto di partenza di Cartesio, il "cogito".
"Cogito, ergo sum", diviene "Sum, ergo cogito", sono, dunque penso.

In Essere e Tempo tale ribaltamento è esplicitato con grande chiarezza e radicalità:

".. Cartesio a cui si attribuisce con la scoperta del cogito sum, l'avvio della problematica filosofica moderna, indagò, entro certi limiti, il cogitare dell'ego. Per contro lasciò del tutto indiscusso il sum, benché lo presenti come non meno originario del cogito. L'analitica pone il problema ontologico dell'essere del sum. Quando questo sarà determinato, e solo allora, risulterà comprensibile anche il modo di essere delle cogitationes (1)."

Il lavoro filosofico di Dreyfus, dagli anni settanta a oggi, si è orientato sempre più verso l'indagine del pensiero di filosofi "continentali" come Husserl e Heidegger (Being in the World, 1991), e le sue teorie recenti sulla mente risultano fortemente influenzate, soprattutto dalla filosofia heideggeriana.
Oltrepassando Cartesio e il trascendentalismo di Husserl, Heidegger supera il concetto stesso di "coscienza soggettiva" e di "stato intenzionale", sostenendo che questi presuppongono un elemento ancor più fondamentale. L'essere dell'uomo è un essere-nel-mondo, e tale peculiarità della soggettività umana non può essere compresa in termini di rapporto soggetto-oggetto puramente individuale.
La prospettiva ontologica heideggeriana va oltre il soggettivismo e l'individualismo, per calarsi in una realtà mondana che è caratterizzata soprattutto dall'interazione sociale dell'uomo con gli altri individui. E questo ha come conseguenza un'attenta considerazione della realtà quotidiana dell'agire umano. Il termine che Heidegger usa per riferirsi all'essere, è Dasein, che nel tedesco colloquiale indica proprio "l'esistenza umana quotidiana". L'essere è un Dasein, un esserci, uno stare nel mondo, che non va confuso con la coscienza soggettiva di Cartesio, né con l'intenzionalità trascendente di Husserl. L'intenzionalità stessa della coscienza si fonda sul Dasein, l'essere è il concetto fondamentale che caratterizza la natura dell'uomo come animale sociale.

Il Dasein è per Heidegger la vita stessa, intesa nel suo significato di esistenza, "vita intesa come fenomeno originario (2)", come concetto specificamente biologico, nel quale si intrecciano tuttavia componenti psicologiche, etiche, religiose ed estetiche. Il Dasein indica il concetto di esistenza nel senso ampio che questo termine possiede: esistenza come vita, agire ed essere nel mondo.
Esso è ciò che caratterizza l'essere umano nella sua globalità, e la coscienza (das Gewissen) stessa è per Heidegger il fenomeno che consente l'apertura costitutiva dell'esserci (3).
La teoria della coscienza va considerata all'interno dell'orizzonte ontologico del Dasein.
L'"analisi esistenziale della coscienza (4)" è da Heidegger condotta soltanto in vista del problema ontologico fondamentale, che la comprende e la giustifica. E "avere coscienza" diviene così una modalità dell'apertura dell'esserci, essa rientra nel fondamento dell'esserci, in virtù del quale l'esserci rende possibile a se stesso la sua esistenza effettiva.

Nei libri scritti tra gli anni settanta e ottanta, What Computers Can't Do: The limits of Artificial Intelligence, e Mind over Machine, Dreyfus attaccava in modo diretto ed esplicito l'intelligenza artificiale, muovendosi all'interno dello stesso terreno delle scienze cognitíve, utilizzando in qualche modo il medesimo linguaggio simbolico.
Successivamente la critica di Dreyfus è divenuta sempre più un'indagine filosofica di tipo fondativo. Il problema della coscienza, dell'attribuzione di stati mentali ad una macchina e della simulazione dell'intelligenza umana, è emerso come problema ontologico. L'essere, l'esserci dell'uomo nel mondo, è per Dreyfus ciò che va pensato a fondo, ancor prima di porre il problema della mente e della coscienza, della rappresentazione e della simbolizzazione della realtà. Da questa prospettiva, il futuro dell'intelligenza artificiale appare destinato al fallimento e a una scomparsa definitiva, perché, ritenere che si possa riprodurre l'intelligenza umana utilizzando solamente regole e rappresentazioni simboliche lascia comunque aperto il problema della conoscenza di senso comune, e non dà risposta alla questione di una fondazione filosofica e ontologica della coscienza, dell'intenzionalità e dell'essere.

Professor Dreyfus, lei è stato un critico radicale delle scienze cognitive e dell'íntelligenza artificiale: i suoi líbri What Computers Can't Do: The Limits of Artificial Intelligence e Mind over Machine, banno dominato il dibattito sulla mente degli ultimi due decenní. Recentemente il suo lavoro filosofico si è maggiormente rivolto alla filosofia tedesca, in particolare a Husserl e Heidegger, senza tuttavia perdere di vista il problema del mentale. Anzi, lei mette in evidenza uno stretto legame tra Heidegger e la filosofia della mente.

In effetti sono sempre più convinto che si possano comprendere molti dei problemi legati alla filosofia della mente proprio a partire dallo studio del pensiero di Heidegger, e di Husserl e della tradizione fenomenologica. Il punto centrale della filosofia di Heidegger, riguardo alla natura della mente umana, è che egli non ha una teoria rappresentazionale della mente, non ha mai elaborato teoreticamente il problema della coscienza, o degli stati mentali come le credenze, i desideri, le intenzioni.
Questo non significa che Heidegger negasse l'esistenza dei contenuti mentali, il fatto cioè che agiamo intenzionalmente perché formuliamo mentalmente un'intenzione, che si realizza poi nella nostra azione. Ma significa che la sua indagine, essendo focalizzata sull'essere e sui modi in cui l'essere si manifesta, in un certo senso tralascia la questione della coscienza.
Questo perché, per Heidegger, è l'essere il livello di base fondamentale per la comprensione del mondo, e gli stati mentali si pongono a un livello successivo a quello dell'essere, un livello che ne presuppone il darsi, l'apertura, la manifestazione delle molteplici forme.
La coscienza e l'intenzionalità vanno pensate a partire dall'essere, e in questo modo anche il problema della mente diviene un problema essenzialmente ontologico. La tradizione filosofica ha completamente frainteso il significato profondo dell'essere e con esso il senso stesso dell'uomo: il progetto fondamentale è quello di ridescrivere che cos'è un essere umano, nella sua autenticità. Fondandosi sulla definizione aristotelica dell'uomo come animale razionale, la filosofia ha sviluppato una teoria della mente che descrive l'uomo come soggetto capace di risolvere problemi e di agire sulla base di credenze e desideri. Un uomo che sa prendere decisioni e seguire regole prestabilite ma che "dimentica" il proprio essere.
Per Heidegger la storia della filosofia è la storia della "dimenticanza dell'essere": essa nasce già con Platone e con l'idea che sia possibile conoscere l'universo in maniera completamente oggettiva, elaborando teorie filosofiche per qualsiasi cosa, anche per gli esseri umani e per il loro mondo. Ciò che Heidegger ha cercato di dimostrare è che non possiamo elaborare una teoria che renda possibili le teorie in generale. E tale assunto heideggeriano ha avuto un'influenza fondamentale non solo sulla filosofia, ma su tutte le discipline che hanno a che fare con l'essere umano. In linguistica, antropologia, psicologia, sociologia, critica letteraria, scienze politiche ed economia, la tradizione è orientata verso la ricerca di modelli formali oggettivi: il tentativo è quello di trovare indicazioni, attributi, caratterístiche, fattori, primitivi e di porli in relazione tramite leggi oggettive, così come accade nelle scienze naturali o nel comportamentismo, o tramite regole e programmi, come avviene nello strutturalismo e nel cognitivismo. Accanto a questo notevole interesse ad approcci formali - che si traduce in modelli di tipo logico-computazionale della mente - c'è tuttavia una crescente consapevolezza che essi non hanno effettivamente portato a una così ampia comprensione dei problemi del mentale, né a una soluzione certa. Moltissimi fenomeni che sono stati investigati nell'ambito delle scienze umane, come il ruolo dei prototipi in psicologia, o l'auto-interpretazione di alcune pratiche sociali in antropologia, non si adattano affatto al modello logico- computazionale.
Per quanto riguarda la questione del ruolo della teoria nelle singole discipline, gli orientamenti recenti sottolineano la rilevanza dei metodi di indagine interpretativa che considerino il significato e il contesto.

Tali approcci si fondano, forse inconsapevolmente, sul metodo ermeneutico proposto da Heidegger in Essere e Tempo. Egli ha seguito le indicazioni di Dilthey, che per primo ha esteso l'ambito di studio dell'ermeneutica dall'interpretazione dei testi sacri all'indagine di tutte le attività umane, introducendo il metodo dell'ermeneutica nella filosofia moderna. Heidegger ha sviluppato la sua fenomenologia ermeneutica in opposizione alla fenomenologia trascendentale di Husserl.
Husserl attribuiva la crisi della fondazione delle scienze umane alla mancanza di una teoria dell'intenzionalità. Per Husserl l'uomo è essenzialmente descritto come coscienza dotata di significati autoreferenziali, che egli chiama "contenuti intenzionali", e che sono ciò che rende intellegibile la realtà esterna.
Heidegger ritiene vi sia una forma più fondamentale di quella del soggetto autoreferenziale e autosufficiente indicato dalla fenomenologia trascendentale di Husserl: questa è data da una fenomenologia "senza mente", che si fonda sulle "capacità di incontrare" gli oggetti quotidiani, rendendoli intellegibili. A partire da Cartesio, i filosofi si sono confrontati con il problema epistemologico della corrispondenza tra idee della mente e mondo esterno. Heidegger ha mostrato che l'epistemologia soggetto/oggetto presuppone uno sfondo di pratiche quotidiane alle quali non corrispondono rappresentazioni mentali. Tale sfondo non rappresentazionale costituisce qualcosa di più fondamentale della mente, è ciò che consente il manifestarsi dell'essere. L'ontologia precede la coscienza: la domanda sulla natura della mente diviene con Heidegger la domanda sull'essere.

La risposta di Heidegger al problema della mente e della coscienza è allora l'essere, il Dasein. Ma questo non significa negare l'esistenza stessa della coscienza?

L'intento di Heidegger è innanzitutto quello di rompere con la tradizione metafisica che inizia con Platone, e prosegue fino a Cartesio e Husserl. Questo non significa negare l'esistenza della coscienza e dell'intenzionalità, ma ridurre il ruolo del soggetto cosciente a un contesto più fondamentale, all'analisi dell'essere. Heidegger non nega la possibilità di avere esperienza di noi stessi in quanto soggetti coscienti, che si relazionano agli oggetti tramite stati intenzionali come i desideri, le credenze, le percezioni, le intenzioni ecc.; non nega affatto l'esistenza dei contenuti mentali e rappresentazionali, ma è fermamente convinto che essi siano le condizioni, derivate e mutevoli, di un più fondamentale modo di essere-nel-mondo che non può essere compreso nei semplici termini del rapporto soggetto/oggetto, res cogitan/res extensa. Il cognitivismo, o il modello computazionale della mente, è la versione più recente dell'idea mentale-rappresentazionale di Cartesio: esso sostiene che l'attività umana si può completamente descrivere nei termini di complesse combinazioni logiche e di rappresentazioni logico-formali.
In questo modo il cognitivismo supporta la credenza nella possibilità di costruire computer digitali capaci di esibire la stessa intelligenza dell'uomo. La visione di Heidegger di una natura non rappresentazionale e non formalizzabile dell'essere umano in quanto essere-nel-mondo, in quanto Dasein, mette in discussione proprio il modello computazionale della mente che sta a fondamento dei tentativi dell'intelligenza artificiale di riprodurre la mente dell'uomo tramite computer sofisticati. Heidegger ci dice che proprio l'esserci dell'uomo è ciò che è impossibile simulare, nemmeno dal più sofisticato e complesso dei computer: la specificità dell'essere è data dal suo relazionarsi al mondo esterno, non solo nel rapporto tra stati mentali e realtà oggettiva, ma nel modo in cui l'essere "incontra" il mondo.

Sembra che per Heidegger l'"incontrare" il mondo implichi un rapporto con i mezzi, gli strumenti della vita quotidiana, e quindi un'interazione non solo teoretica, ma ancbe pratica tra l'ente e il mondo.

Certamente, è proprio questo il punto: egli ritiene che un approccio esclusivamente teoretico e logicizzante, distaccato e contemplativo, alla questione della mente faccia perdere il senso fondamentale dell'essere dell'uomo, e cioè il suo essere-nel-mondo. L'uomo vive autenticamente quando riesce a "incontrare" il mondo non solo teoreticamente, ma anche praticamente: e questo significa esprimere le proprie capacità e abilità nell'interazione con gli strumenti, i mezzi, gli oggetti, e anche con gli altri esseri umani (5).

Heidegger propone una descrizione fenomenologica di questo "incontrare" gli strumenti e gli oggetti del mondo, e afferma che l'uso che noi facciamo di tali strumenti è ciò che li rende familiari e totalmente trasparenti. Quando guidiamo l'auto o giochiamo a tennis, non prestiamo alcuna attenzione al nostro agire, né all'oggetto, l'auto o la racchetta da tennis, ma siamo concentrati sul fine dell'azione; l'oggetto è soltanto il mezzo che stiamo utilizzando. Il nostro agire in questi casi non richiede alcuna intenzionalità specifica, nessuna percezione particolare dotata di contenuto intenzionale: è un livello basico, fondamentale che precede l'intenzionalità. Per entrare nel mio studio, per esempio, so che devo aprire la porta e per aprire la porta devo girare la maniglia, ma questo non richiede che io sia cosciente di tale azione; potrei pensare alla lezione che devo preparare per l'ora successiva, o parlare con qualcuno, e nel contempo aprire la porta. Non ho bisogno di avere una chiara percezione della porta o di essere consapevole della sua esistenza (6).
Un esempio significativo è costituito dal particolare caso clinico di un uomo che, a causa di una lesione al cervello, è cieco in una porzione del campo visivo (7).
Egli sostiene di non riuscire a vedere o a percepire nulla in quella porzione del campo visivo, e questo non sorprende; ma, e questo è invece sorprendente, riesce a "indovinare", con risultati eccellenti, la forma e l'orientazione di certi simboli situati in quest'area "cieca".
Questa è stata chiamata la "visione cieca"; il soggetto, nonostante la parziale cecità, riesce a muoversi e orientarsi agevolmente in una stanza, riconoscendo gli oggetti di cui non sembra essere cosciente, perché ha sviluppato una particolare abilità nel riconoscere la realtà esterna, anche in assenza di un'elaborazione cosciente di essa. Una parte del suo cervello sembra "incontrare" il mondo, sebbene egli non ne sia consapevole.
E tutti noi, in un certo senso, presentiamo analoghe caratteristiche nell'abilità a guidare, scrivere, o giocare a tennis: siamo in grado di agire, di "incontrare" la realtà, senza passare per la parte cosciente del cervello.

Potremmo affermare, con Heidegger, che la coscienza non è una condizione necessaria per entrare in relazione con il mondo, ma è piuttosto il nostro essere immersi in uno sfondo ontologico originario ciò che consente il manifestarsi delle nostre capacità e abilità. Di nuovo, è l'esserci, il Dasein il concetto che esprime l'essere dell'uomo: esso sta a fondamento degli stati mentali, della coscienza e dell'intenzionalità. Il concetto di coscienza è per Heidegger un concetto confuso, e proprio per questo essa quasi non compare in Essere e Tempo.

Qual è la teoria della mente che emerge dunque dall'opera di Heidegger? Quale ruolo hanno coscienza e intenzionalità in relazione al concetto più fondamentale, e che in un certo senso sembra comprenderli, di Dasein?

Innanzitutto va ricordato che il punto di partenza della riflessione heideggeriana è Husserl: a Husserl è dedicato Essere e Tempo, con "ammirazione e amicizia", e le influenze fenomenologiche presenti nel pensiero di Heidegger sono notevoli. La teoria dell'intenzionalità di Husserl rimane però, secondo Heidegger, all'interno della tradizione cartesiana che pone la contrapposizione soggetto/oggetto; essa va quindi criticata e superata. L'intenzionalità non è l'espressione di base, fondamentale della vita psichica, perché essa esprime una separazione tra contenuto intenzionale e mondo esterno. Heidegger quindi accetta la teoria di Husserl dell'intenzionalità come "direzionalità verso un oggetto" e come manifestazione dell'attività umana, ma non condivide l'idea che essa sia ciò che contraddistingue in maniera essenziale la vita mentale dell'uorno. L'essere umano non è soltanto un soggetto, un Ego cui appartengono esperienze intenzionali: Heidegger rifiuta i termini mentalistici della fenomenologia e, proponendo un'ontologia dell' esserci, introduce il termine Verbalten, comportamento, per riferirsi alla direzionalità verso qualcosa, proprio per distinguerlo dall'intenzionalità della fenomenologia. Egli afferma che l'intera costruzione del meccanismo della mente è frutto di un'elaborazione teorica che non corrisponde affatto a una descrizione fenomenologica. Il comportamento, o intenzionalità, non si riferisce soltanto agli atti della coscienza, ma all'attività dell'uomo in generale. L'intenzionalità viene da Heidegger attribuita non alla coscienza, ma al Dasein. Non dobbiamo continuare a riferirci all'uomo nei termini mentalistici di un soggetto dotato di intenzionalità e coscienza, ma dobbiamo comprendere come tale comportamento intenzionale sia esso stesso parte del concetto fondamentale di Dasein, di esserci: l'intenzionalità fa parte dell'esistenza del Dasein.

Lei sostiene che il pensiero di Heidegger costituisce una sorta di critica ante litteram al cognitivismo e all'intelligenza artificiale; in che modo l'ontologia beideggeriana contrasta i moderni modelli computazionali della mente umana?

La critica che Heidegger rivolgeva a Cartesio e alla tradizione mentalista e razionalista della filosofia, è la medesima che possiamo oggi elaborare nei confronti del cognitivismo e dell'intelligenza artificiale, poiché le teorie della mente che tali orientamenti presuppongono sono di origine cartesiana. Cartesio vedeva nella res extensa, nella natura, la determinazione ontologica fondamentale del mondo (8), e ugualmente la moderna ontologia cognitivista ritiene di poter spiegare le diverse manifestazioni dell'essere nei termini della sola res extensa. Il cognitivismo descrive il mondo come insieme di oggetti che si relazionano alle capacità umane tramite regole e norme logico-razionali; ma questo, per Heidegger, significa proporre un'ontologia che oltrepassa il mondo, senza indagarlo veramente. La sostanza, l'essere, rimane per se stessa inaccessibile, viene esplicitamente "dichiarata inchiaribile" (9).
L'ontologia tradizionale, e il cognitivismo, risultano, nella prospettiva heideggeriana, non plausibili: è il suo "essere-nel-mondo" ciò che descrive l'uomo come esserci, come essere autentico. L'autenticità dell'essere si manifesta nella vita quotidiana attraverso abilità e capacità che non potrebbero esplicitarsi se non in questo "essere-nel-mondo". I computer sono programmati come sistemi fisici simbolici, cioè utilizzano regole e modelli matematici, ma non hanno nessuna capacità, in senso proprio. La nostra "familiarità" con il mondo non consiste semplicemente nell'elaborare regole, ma è caratterizzata piuttosto dalla nostra capacità di rispondere alle diverse situazioni nel modo appropriato: non è possibile formalizzare la conoscenza del senso comune. I fatti e le regole sono di per sé privi di senso: siamo noi che diamo loro una rilevanza specifica, che diversamente non avrebbero, attribuendo predicati di un certo genere. Tuttavia, i predicati sono di per sé ancor più insensati dei fatti cui si riferiscono; e, paradossalmente, nel caso dei computer, più sono i fatti e le capacità operazionali ad esso attribuiti, maggiore è la difficoltà per il computer di calcolare con esattezza la rilevanza specifica di una particolare situazione. Questo implicherebbe l'elaborazione di un programma di data-base di enorme vastità, che porterebbe comunque a una ricerca vana e senza speranza. Per usare uno degli esempi favoriti di Heidegger, per comprendere che cos'è un martello, un computer, non dovrebbe fare riferimento al database costituito di chiodi, muri, persone, case, legno, ferro, prove di resistenza ecc., ma accedere solamente ai fatti di possibile rilevanza, nel contesto specifico in cui esso sta operando. Ed è qui che emerge il problema: per riprodurre il contesto umano, il computer dovrebbe essere in grado di "essere in una situazione", di "sentirsi situato", ma il computer non è mai in una situazione specifica. Alla luce delle attuali difficoltà in cui si trova l'intelligenza artificiale, l'analisi di Heidegger risulta ancor più pregnante, ed è particolarmente rilevante il suo invito a pensare autenticamente l'essere e i fenomeni del mondo. La scienza può fornire spiegazioni corrette del funzionamento dei meccanismi e degli oggetti nei termini delle relazioni causali tra i diversi elementi che li compongono. Ma questo non implica alcuna istanza di tipo ontologico: la questione riguarda la comprensione, non la spiegazione; si tratta di dare ragione di come le cose sono, non di spiegare come esse funzionano. E credo sia significativo il fatto che anche uno dei maggiori fautori e teorici dell'intelligenza artificiale come Terry Winograd, abbia riconosciuto "la difficoltà di formalizzare lo sfondo preteoretico di senso comune che determina i nostri scopi e le nostre strategie, e la nostra interazione con il mondo (10)".
Winograd ha recentemente abbandonato le ricerche nel campo dell'intelligenza artificiale e tiene un corso sul pensiero di Heidegger alla facoltà di Computer Science della Stanford University.

Quali sviluppi teorici intravede per le ricerche nell'ambito dell'intelligenza artificiale?

L’intelligenza artificiale ha come obiettivo primario quello di tentare di riprodurre ciò che fa la mente dell'uomo, utilizzando i computer in un modo particolare, cioè come sistemi fisici e simbolici, capaci di operazioni cognitive. A questo le scienze cognitive aggiungono un elemento fondamentale: non è sufficiente fare ciò che fa la mente, ma l'intento è farlo esattamente nello stesso modo in cui opera la mente. E questo significa avere una teoria della mente, che è ciò che contraddistingue appunto le scienze cognitive dall'intelligenza artificiale. La distinzione può essere chiarita da un esempio: una macchina che gioca a scacchi, semplicemente utilizzando elementi computazionali, è espressione dell'intelligenza artificiale, e questo non fornisce alcun contributo alle scienze cognitive, perché tutti sanno che un giocatore di scacchi umano non sarà mai in grado di calcolare le mosse possibili da compiere con la stessa velocità di calcolo di un computer. Vi sono oggi programmi capaci di calcolare dodici milioni di mosse, a una velocità impensabile per un soggetto umano. Questo non ci dice nulla, tuttavia, sul modo in cui gli esseri umani giocano a scacchi: la macchina si limita a riprodurre, a velocità centuplicata, una particolare abilità dell'uomo.

L'intelligenza artificiale tende a ridurre i processi di conoscenza e di sviluppo dell'intelligenza al problema della memoria - e di una memoria intesa come un'enorme biblioteca di informazioni, catalogate e assemblate in qualche luogo del nostro cervello. Avendo a disposizione tempo e capacità - sostengono gli studiosi di intelligenza artificiale - riusciremo ad accumulare moltissime informazioni, e quindi a costruire macchine molto simili agli esseri umani. Il problema che emerge riguarda la conoscenza: quella dell'intelligenza artificiale sarebbe comunque una forma di conoscenza molto limitata e parziale, perché i meccanismi stessi delle macchine sono limitati. E anche se fosse possibile costruire un computer dotato di una super-memoria, capace di contenere anche una piccola parte dei miliardi di informazioni presenti nei nostri cervelli, essa ancora non corrisponderebbe alla memoria umana. Nell'uomo la memoria è profondamente connessa a quella particolare forma di conoscenza data dall'interazione con il mondo esterno e dalle capacità di relazionarsi agli altri esseri umani, nella vita quotidiana. Sono convinto che, per quanto l'intelligenza artificiale possa svilupparsi e progredire, non sarà mai in grado di elaborare un programma capace di interagire con il mondo e di orientarsi con successo nelle scelte complesse, ma talvolta anche semplici e banali, che caratterizzano la vita quotidiana degli uomini. Credo che, sul piano teoretico, l'intelligenza artificiale si stia rivelando un enorme fallimento, e non vedo grandi sviluppi futuri, almeno in relazione ad una comprensione filosofica del mondo, anzi credo che nei prossimi dieci anni essa andrà completamente scomparendo.

 

NOTE

1) M. Heidegger, Essere e tempo, trad.it. di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1976, p. 69.

2) Il termine Dasein, "esserci", è solitamente tradotto con "l'esistenza" quando usato nel senso metafisico tradizionale. Per esempio in Essere e Tempo, Longanesi, Milano 1976, p. 64, nella "Lettera sull-umanismo", in Segnavia, a c. di E. Volpi, Adelphi, Milano 1987, p. 287, in Fenomenologia e teologia, cit., p. 33, o nel saggio La tesi di Kant sull'essere, cit., pp. 393-427. Nella genesi del significato specificamente heideggeriano del termine "esserci" è presente anche un riferimento esplicito al termine "vita" documentato dalle Note sulla psicologia delle visioni del mondo" di Karl Jaspers, in Segnavia, p. 444.

3) M. Heidegger, Essere e tempo, cit., § 57-60, pp. 328-364.

4) M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 351.

5) "Il comportamento "pratico" non è "ateoretico" nel senso che sia privo di visione, e il suo differenziarsi dal comportamento teoretico non consiste solo nel fatto che nel primo si agisce e nel secondo si contempla; [ ... ] al contrario, il contemplare è originariamente un prendersi cura, allo stesso modo che l'agire ha un suo proprio modo di vedere. Il comportamento teoretico è un limitarsi a contemplare, senza visione ambientale preveggente" M. Heidegger, Essere e tempo, 5 15, pp. 95-96.

6) Dreyfus si riferisce al testo heideggeriano: "Il chiarimento fenomenologico dell'essere dell'ente che si incontra per primo, avviene nel quadro di quel modo quotidiano di essere-nel-mondo che indichiamo anche con l'espressione commercio nel mondo e con gli enti intramondani. [ ... ] L'Esserci quotidiano è infatti già sempre in questo modo di essere; per esempio, per aprire la porta faccio uso della maniglia. [ ... ] A rigor di termini un mezzo isolato non "c'è". L'essere del mezzo appartiene sempre alla totalità dei mez- zi. Un mezzo è essenzialmente "qualcosa per… ". Nella struttura del "per" è implicito un rimando di qualcosa a qualcosa. [ ... ] Il mezzo, per la sua stessa natura, è sempre tale a partire dalla sua appartenenza ad altri mezzi: scrittoio, penna, inchiostro, carta, cartella, tavola, lampada, mobili, finestre, porte, camera. [ ... ] E' il martellare a scoprire la specifica "usabilità" del martello. Il modo di essere e del mezzo, in cui questo si manifesta da se stesso, lo chiamiamo utilizzabilità. L'osservazione puramente "teorica" delle cose è estranea alla comprensione dell'utilizzabilità", M. Heidegger, Essere e tempo, 5 15, pp. 92-98.

7) Il caso clinico cui fa riferimento Dreyfus, è documentato e accuratamente descritto nell'articolo visual capacity in the Hemianopic Field Following a restricted Occipital Ablation", di L. Weiskrantz, E.K. Warrington, M.D. Saunders e J. Marshall, in " Brain ", 97, 1974.

8) "Cartesio vede nella extensio la determinazione ontologica fondamentale del mondo", M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 119.

9) M. Heidegger, Essere e tempo, cit., 5 20, p. 125.

10) T. Winograd, Computer Software for Working with Language, in "Scientific American", Sept. 1984

 

BIBLIOGRAFIA

- H.L. Dreyfus, Wkat Computers Can't Do: The Limits of Artificial Intelligence, Harper and Row, New York 1972.

- Husserl, Intentionality, and Cognitive Science, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1982.

- Mind over Macbine, Free Press, New York 1986.

- MIT Press, Cambridge (Mass.) 1991.