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Più ampiamente, l'aver concretamente guardato all'universo della conoscenza come ad un sistema vivente rende Holland autore di una straordinaria proposta gnoseologica, in cui, le strutture per la rappresentazione dell'esperienza - dunque leggi, convenzioni sociali, teorie scientifiche - sono soggette a continuo mutamento orientato dalla spinta a soddisfare esigenze via via emergenti.
Ho incontrato Holland nel novembre '97 ad Ann Harbour, Michigan dove, insegna, e, quasi a giustificare il taglio teoretico che volevo imprimere al dialogo, ho subito impostato la questione dell'interazione tra aspetto pratico e teorico del sapere:
S: Prof. Holland, a mio giudizio il suo più grande contributo è quello di aver proposto l’approccio evoluzionista della biologia nella teoria della conoscenza, il che conduce in qualche misura a concepire la verità non come fatto, ma come processo: i modelli di per la rappresentazione dell'esperienza non risultano validi in assoluto, ma in relazione agli scopi che consentono di perseguire.
La sua posizione contrasta ogni forma di creazionismo epistemologico mettendo in luce il ruolo delle componenti pre-logiche nell'attività razionale; si sente a questo punto più filosofo o più scienziato ?
H : La separazione tra filosofia e la scienza è artificiosa e pericolosa per entrambi, contaminazione - nel senso di interdisciplinarità - e pluralismo portano alla diversificazione, e la diversificazione è il segreto dell'evoluzione, anche nel sapere.
S : L'informatica può recepire il concetto di adattamento passando da una tecnologia dominata da istruzione e programmazione ad una tecnologia capace di apprendimento. Tuttavia, per poter rendere la macchina interprete duttile degli obiettivi dell'utente non è forse necessario attuare un salto di mentalità, abituare progettisti e fruitori tecnologici ad accettare l'errore e l'incertezza quali componenti produttive del sapere ?
H : Compagnie come la Xerox o la Storà svedese si stanno ponendo il problema di come mutare il modo di pensare della gente, in relazione a una trasformazione futura che potrà decretare se queste compagnie sopravviveranno oppure no. Questo più o meno è simile a ciò che accade nel software: si avverte cioè la necessità di dare valore alla flessibilità e alla possibilità di previsione. Nel caso delle Società, per esempio, avviene un’operazione del genere: conosci la nozione di opzione?
S : Si, certo stiamo parlando di mercato azionario.
H : Bene, se una compagnia è in grado di vendere opzioni sulle sue possibilità future, questo valore può essere inglobato nella quotazione attuale. Si sta cioè cercando di fare in modo che il futuro diventi una componente capace di determinare il valore di un’azienda nel presente. E certamente lo stesso accade per il software: la futura flessibilità è il principale fattore critico che incide sulla valutazione dell'attività al presente.
S : Cosa intende per approccio "flessibile" ossia intelligente, può esemplificare la differenza tra un software intelligente e uno classico?
H : Il problema è ovviamente difficile, un po’ come quando devi spiegare a qualcuno cosa intendi quando dici che qualcosa è complesso. Nella maggior parte dei casi ho riscontrato che la cosa migliore è fornire degli esempi. Mi rifaccio, dunque, a un esempio preso dalla biologia. Osserviamo il sistema immunitario, dove esistono germi portatori di malattie che non sono mai uguali fra loro, ma diversi di volta in volta: se il sistema fosse fisso, inalterabile, l’organismo non sopravviverebbe. I geni che controllano il sistema immunitario si comportano in maniera piuttosto anomala essi sono stati sottoposti al medesimo tipo di cross-over che avviene tra le generazioni, su una base del giorno per giorno, detto "ricombinazione somatica". Il sistema, dunque, prova continuamente nuove combinazioni delle quali molte falliscono, tuttavia quelle che hanno successo sono gli elementi critici. Se applichiamo questo esempio alla storia delle compagnie quello che direi loro è: "abituatevi a tenere conto dell’appreciation (aumento di valore, rivalutazione n.d.r.). Sapete quali sono i risultati che la vostra attrezzatura vi permette di ottenere, dunque tenete conto ora del fatto che andrete in futuro a sostituire quell’attrezzatura". Questo è quello che si chiama appreciation.
S : Intendendo l'intelligenza come capacità di adattamento ad un contesto risulta difficile ritenerla localizzata in un "cervello", dal momento che è assimilabile ad un insieme di funzioni diffuse, tipo il comportamento di un alveare.
H : Il mio amico Hofstadter usa le colonie di formiche come esempio di qualche cosa che è intelligente, mentre gli individui sono piuttosto limitati. Il gruppo cioè si dimostra particolarmente flessibile; esiste poi un altro concetto tradizionalmente associato all'intelligenza che complica parecchio la questione: il concetto di "coscienza". Di molte persone posso dire che sono intelligenti, ma non sono certo di poter dire se hanno coscienza.
S : A questo proposito: qual è a suo parere la relazione tra intelligenza e coscienza e qual è il ruolo della motivazione, intesa come intenzionalità ovvero come qualcosa di extra-logico?
H : Prendiamo una altro esempio: l'E-coli, questo battere intestinale si muove nella direzione della variazione del glucosio. Il battere, cioè, anticipa una sorgente di glucosio nella direzione del gradiente.
Sebbene non ci sia nulla che si possa con certezza chiamare "coscienza" è tuttavia possibile dire che esiste un' intenzione rafforzata dall'evoluzione. Questa intenzione è resa effettiva dall'azione di una proteina deputata a segnalare la sequenza che controlla le flagellae del battere, provocando reazioni immediate alle condizioni ambientali. Gli ormoni garantiscono questa stessa funzione di risposta "pre-cosciente" negli organismi più complessi (pluricellulari).
Diciamo, quindi, che un'azione è buona o cattiva in base a criteri che sono determinati da questa capacità di adattare la risposta.
Ad un certo punto accade che la parte più logica si pone al vertice di questa struttura riorganizzando la risposta immediata. Per esempio, per una connessione io decido che mi piace la matematica, perciò trascorro il resto della mia vita cercando di trovare la maniera per fare questo. Direi che la mia maniera di lavorare è senz’altro questa: tendo a vedere quanto riesco a spiegare con gli strumenti che possiedo e poi vedo quanto è rimasto "fuori", che non riesco a spiegare. Pertanto io posso costruire questa macchina complessa che forse non sarà mai in grado di dirmi cos’è la coscienza, ma per lo meno mi metterà in grado di capire che cosa devo fare ancora, facendo supposizioni e vedendo se i miei modelli via via si avvicinano.
In altre parole io penso che sia un problema davvero difficile, perciò la cosa migliore che posso fare è procedere il più possibile con i metodi familiari, prima di arrivare a dire che devo fare qualcosa di radicalmente diverso, per arrivare a capire in che termini sta il problema. Ecco perché penso che Penrose sia prematuro quando pensa che l’evoluzione della meccanica quantistica arriverà a spiegare cos’è la coscienza, in realtà non esistono ragioni per supportare questo.
S : Penrose sostiene una concezione platonista della verità, per lui la coscienza è uno specchio della realtà calato nella realtà, ragion per cui quanto più lo specchio diverrà terso, tanto più sarà possibile "copiare" la realtà e dunque la coscienza stessa che ne è parte.
H : Esattamente. Io invece penso che se riuscissi a costruire un software o una macchina sempre più complessa, avrò via via un concetto di coscienza sempre più flessibile di quello che avevo; anche se io propriamente non so cosa sia la parola "coscienza" , avrò qualcosa di sempre più simile a un organismo vivente, perché capace di rispondere alle richieste dell’ambiente.
S : Riguardo alla possibilità di riprodurre i nostri processi mentali ricordo che in un brano della sua opera Induction, Lei sosteneva che "Our framework is the result of the inductive mechanism itself"(la nostra struttura - insieme di principi per la spiegazione dell'induzione - è essa stessa il risultato di un meccanismo induttivo, n.d.r.), questo implica senz’altro un problema di metodo: com’è cioè possibile conoscere qualcosa (sistema cognitivo) che si impiega per conoscere?
H : Distinguerei due livelli:
1. Quello classico di come è possibile provare come funziona l’induzione,
2. Se devi usare l’induzione per provare che l’induzione funziona, questo ovviamente comporta dei problemi.
S : Questo secondo mi sembra sia il problema generale della conoscenza di questo secolo, quello implicato dal teorema di Gödel, perché si tratta di rappresentare i canoni della rappresentazione razionale.
Penso che nel suo proposito di ragionare per ipotesi e di andarle a verificare, sia possibile disegnare differenti scenari; questa mi sembra una sorta di pre-comprensione del problema: la vita e l'esperienza decidono la strada.
H : Così è e probabilmente il centro di questo è la nozione di default, perché tu parti con un'affermazione molto generale, che è sbagliata nella maggior parte dei casi, ma che via via correggi. Così se non ti aspetti completezza, ma solo un miglioramento, allora puoi aprire un varco (un punto di vista) in questo cerchio, perché fai semplici inferenze che migliori e non cerchi nient'altro se non di ottenere un comportamento migliore (migliorato).
S : Credo che in questo modo si esca dall'impasse della logica classica, per cui i modelli di interpretazione sono tutti dati in uno stesso momento e perciò è impossibile coprire l'infinita gamma di situazioni che la vita presenta. Così, invece, è possibile avere reale corrispondenza tra il modello e la realtà (presunta), certo parziale, ma sempre crescente. Il modo di procedere della logica tradizionale implica un esito paradossale, il paradosso di Gödel appunto, perché si finisce per avere una rappresentazione che si allontana dalla realtà.. A questo punto mi interesserebbe chiederle come, secondo lei, muta il concetto di verità con l'introduzione dei modelli evolutivi.
H : In questo senso sono un relativista: ritengo, cioè, che per esempio la scienza possa accrescere sempre di più il suo grado di articolazione e complessità per giungere a un buon grado di approssimazione, ma non penso esista una verità precostituita da raggiungere.
S: E su questo punto torniamo allo scontro con Penrose
H : Certamente! C'è un vostro compatriota che conosce bene questo problema, qualcuno che io penso sia davvero grande: Umberto Eco. Mi pare che lui abbia davvero chiaro in testa questo concetto di costruzione progressiva in termini di quello che via via tu sei in grado di capire. Il suo libro "L'isola del giorno prima" contiene una delle più belle descrizioni del processo creativo che abbia mai letto.
Trovo che la sua maniera di trattare le questioni sia entusiasmante e per me è particolarmente facile da tradurre nel mio modo di pensare. In questo libro c'è una bellissima descrizione della metafora, è solo un paragrafo, ma spiega perfettamente come e perché le metafore sono così importanti.
S : Probabilmente anche perché è un ottimo scrittore e questo aiuta.
H : Sicuramente ed è senz'altro fortunato perché il traduttore della versione inglese è davvero un buon traduttore, credo abbia inteso molto bene il senso del testo. Nell'introduzione all'edizione inglese egli ha scritto un lungo saggio sui criteri da lui adottati nella traduzione e da cui risulta un continuo raffronto con l'autore stesso. Credo che tradurre un libro così sia un po’ come tradurre in italiano "Alice in Wonderland".
S : Veniamo ora a una questione un po’ più tecnica: qual è, secondo lei il ruolo dei modelli evolutivi nello sviluppo futuro del software e a che grande trasformazione essi possono dare luogo?
H : Una studentessa che collabora con me, Stephany Forester, sta attualmente lavorando su un sistema software che funziona proprio come il sistema immunitario e che serve per trovare i virus del computer, lo sponsor è una società di Los Alamos. I normali programmi antivirus, come SAM, funzionano in maniera molto tradizionale: si fa cioè una lunga lista. Questo, invece, cerca di costruire un modello di ciò che succede, sia del sistema che di ciò che in qualche modo lo danneggia. Il sistema immunitario è la miglior definizione a nostra disposizione di cosa sia l'individualità umana, al punto tale che esso riconosce i geni che ti appartengono così tu non puoi prendere uno skindraft da un padre o una sorella perché il tuo sistema riconosce te, mentre rifiuta persino coloro che hanno una relazione molto stretta con te. Se un computer riuscisse a fare questo è facilmente intuibile il vantaggio che se ne ricaverebbe.
S : In generale lei pensa che i modelli evolutivi indirizzino il software del futuro verso l'autocorrezione e l'autoprogrammazione ?
H : Ne sono convinto. Dall'esempio fatto questo risulta abbastanza chiaro, perché ogni volta che viene scoperto un virus il sistema deve costruire un modello dello stesso e reagire di conseguenza e questo senza dubbio significa un continuo miglioramento. La risposta è decisamente affermativa: anche se ora abbiamo sistemi abbastanza semplici credo che possiamo arrivare a costruirne di molto complessi.
Questa questione mi riporta all'inizio della nostra discussione là dove si parlava di sensazione (feeling) e coscienza: non credo che mi sia possibile sentire alcunché, se non ho la sensazione di essere un individuo, di qualche cosa che mi separa da ciò che esiste al di fuori. E se posso costruire uno di questi programmi che capisce sempre più cosa appartiene a sé e cosa al mondo circostante, questa sempre maggiore possibilità di definire la sua individualità ha sicuramente a che fare con la coscienza. Non voglio dire che esiste una corrispondenza perfetta, ma è un passo in avanti.
S : Cosa pensa allora del lavoro di Koza, "Genetic programming"?
H : Devo pensare che è un buon lavoro, lui è stato uno dei miei allievi! A volte, quando qualche studente mi sottopone un tipo di ricerca che è intenzionato a intraprendere, manifesto il mio disaccordo, spiegando che ritengo la cosa impossibile; spesso però loro decidono di proseguire comunque e quasi sempre rimango impressionato dai risultati!
S : Ricordo, infatti, un suo articolo su "Science" in cui sottolineava la difficoltà di avere strutture software da poter ricombinare attraverso cross-over, perché sono necessari alcuni requisiti come, per esempio, la chiusura del sistema. Succede, infatti, che, quando tu combini parti di programmi differenti, non ottieni nuovamente un programma. Perciò vorrei sapere qual' è ora la sua opinione.
H : Penso che John Koza abbia fatto bene a continuare in questo tentativo di ricombinare tra loro differenti strutture in maniera che originino alcune funzioni e in seguito a ricombinare queste sotto-routines. Credo davvero che là dove io avevo previsto grandi difficoltà lui ha saputo andare molto avanti.
S : Se mi permette sarebbe assai istruttivo per me osservare un Suo processo cognitivo: come è sorta l'idea degli algoritmi genetici?
H : Sono arrivato qui ad Ann Arbour, dopo la laurea in fisica, per un dottorato in matematica per cui avevo intenzione di fare la mia tesi, ma allora stava iniziando un programma decisamente interdisciplinare chiamato "Scienze della comunicazione" gestito dal mio mentore Arthur Barks , e mentre scrivevo la mia tesi mi sono accorto che in realtà questo argomento mi interessava molto di più, così ho cambiato tesi. Mi è venuto incontro questo libro di Henry Fischer intitolato "The Genetical Theory of Natural Selection" (La teoria genetica della selezione naturale, n.d.r.) ed era la prima volta che vedevo qualcuno servirsi della matematica per studiare la biologia, questa cosa mi ha colpito a tal punto che l'idea degli algoritmi genetici viene proprio da questo interesse.
S : Ma il passaggio dall'utilizzo di questi in biologia all'utilizzo nella teoria della conoscenza com'è avvenuto?
H : Vanno fatte alcune premesse: quando ancora stavo preparando la mia tesi di laurea a M.I.T, parliamo del 1949, l'università aveva acquistato il primo computer ed io ero particolarmente interessato ad usarlo. L'argomento della mia tesi di laurea era la risoluzione delle equazioni di Poisson attraverso una procedura chiamata "relaxation", una sorta di ottimizzazione. Infine quando mi è capitato tra le mani il libro di Fischer questa idea era ancora nella mia testa, così ho pensato che potevo cercare di coniugare le due cose, applicare, cioè quella teoria nel campo in cui stavo lavorando.