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XXV
[SOPRA IL CANDORE DELLA LUNA]
AL PRlNClPE LEOPOLDO Dl TOSCANA
(Arcetri, 31 marzo 1640)
Serenissimo Principe e mio Signor Colendissimo
Tardi, Serenissimo Principe, pongo io in esecuzione il
comandamento fattomi più giorni sono dall'Altezza Vostra
Serenissima intorno al dovere maturamente considerare il
trattato dell'eccellentissimo signor Fortunio Liceti
intorno alla pietra lucifera di Bologna, e sopra di
questo significarle il giudizio che ne fo. Ho fatta la da
lei impostami considerazione, e del darne io conto
al'Altezza Vostra Serenissima così tardamente, prego che
sia servita di accettare la mia scusa, condonando tutto
l'indugio alla mia miserabil perdita della vista, per il
cui mancamento mi è forza ricorrere all'aiuto degli
occhi e della penna di altri; dalla qual necessità ne séguita
un gran dispendio di tempo, e massime aggiuntovi l'altro
mio difetto, di aver, per la grave età, diminuita gran
parte della memoria, sì che nel far deporre in carta i
miei concetti, molte e molte volte mi bisogna far
rileggere i periodi scritti avanti, per poter soggiugnere
gli altri seguenti e schivar di non repeter più volte le
cose già dette. E creda l'Altezza Vostra Serenissima a
me, che dalla esperienza ne sono bene addottrinato, che
dallo scrivere servendosi degli occhi e della mano
proprii, al dover usar quelli di un altro, vi è quasi
quella differenzia che altri nel gioco delli scacchi
troverebbe tra il giocar con gli occhi aperti e il giocar
con gli occhi bendati o chiusi. Imperoché in questa
seconda maniera, dalle tre o quattro gite di alcuni pezzi
in poi, è impossibile tenere a memoria delle mosse di
altri più; né può bastare il farsi replicar piu volte
il posto dei pezzi, con pensiero di poter produrre il
gioco fino all'ultimo scacco, perché credo si tratti
poco meno che dell'impossibile. Supposto dunque che
l'Altezza Vostra Serenissima per sua benignità sia per
ammettere la necessaria scusa della mia tardanza, verrò
a schiettamente e sinceramente esporle quel giudizio che
ho fatto sopra detto libro.
Ma prima che ad altro io descenda, voglio che
l'Altezza Vostra Serenissima sappia come
l'eccellentissimo signor Liceti, subito uscito in luce il
suo trattato De lapide Bononiensi, me ne inviò
una copia, pregandomi che io liberamente dovessi
significarli quello che a me pareva di questa sua fatica;
e mentre che l'Altezza Vostra Serenissima mi ricerca
dell'istesso, con ogni schiettezza le aprirò il mio
senso.
Dicole dunque, che se io volessi conforme al merito
diffondermi nelle lodi dell'ampla e sottilissima dottrina
che mi è parso scorgervi, oltre al convenirmi assai in
lungo distendere, dubiterei che le mie parole, benché
purissime e sincere, potessero apparire ad alcuno
iperboliche o adulatorie: ad alcuno, dico, di quelli, che
troppo laconicamente vorrebbero vedere, nei più angusti
spazii che possibil fusse, ristretti i filosofici
insegnamenti, sì che sempre si usasse quella rigida e
concisa maniera, spogliata di qualsivoglia vaghezza ed
ornamento, che è propria dei puri geometri, li quali né
pure una parola proferiscono che dalla assoluta necessità
non sia loro suggerita. Ma io, all'incontro, non
solamente non ascrivo a difetto in un trattato, ancorché
indirizzato ad un solo scopo, interserire altre varie
notizie, purché non siano totalmente separate e senza
veruna coerenza annesse al principale instituto; che anzi
stimo, la nobiltà, la grandezza e la magnificenza, che
fa le azzioni ed imprese nostre meravigliose ed
eccellenti, non consistere nelle cose necessarie (ancorché
il mancarvi queste sia il maggior difetto che commetter
si possa), ma nelle non necessarie, purché non sieno
poste fuori di proposito, ma abbino qualche relazione,
ancorché piccola, al principale intento. E così, per
esempio, vile e plebeo meritamente si chiamerebbe quel
convito nel quale mancassero i cibi e le bevande,
principal requisito e necessario; ma non però il non
mancar di queste lo fa così magnifico e nobile, che
sommamente più non gli arrechino grandezza e nobiltà la
vaghezza dell'egregio e sontuoso apparato, lo splendore
dei vasi d'argento e d'oro, che, adornando la mensa e le
credenze, dilettano la vista, i concenti di varie
armonie, le sceniche rappresentazioni, e i piacevoli
scherzi, all'udito così graziosi. La maestà di un poema
eroico vien sommamente ampliata dalla vaghezza e varietà
de gli episodii; e Pindaro, principe de' lirici, si
sublima tanto col digredire in maniera dal principale suo
intento, che è di lodar l'eroe da esso cantato, che nel
tesser le laudi di quello non consuma la decima, né anco
tal ora la vigesima, parte de i versi, i quali spende in
varie descrizzioni di cose che in ultimo, con fila assai
sottili, sono annesse al principal concetto. lo per tanto
interamente applaudo alla maniera che il signor Liceti,
abbondantissimo di mille e mille notizie, tiene nei suoi
componimenti, ed in particolare in questo, nel quale,
prima che condurre il famelico lettore a saziare sua
brama con l'ultimo insegnamento del problema
principalmente desiderato, ci porge un util diletto di
tante belle cognizioni, che bene ci obliga a rendergliene
mille grazie, mentre che con grato risparmio di tempo e
di fatica ci libera dal rivoltare i libri di cento e
cento autori.
Degna dunque di lodi infinite stimo io questa sua
nobile ed util fatica. Ed acciocché l'Altezza Vostra
Serenissima resti sicura che io schiettamente e non
simulatamente discorro, voglio contraporre alle meritate
lodi che a tutto il resto del suo libro si convengono,
alcune mie considerazioni intorno alla digressione che fa
il signor Liceti nel capitolo L di questo suo libro, le
quali mi pare che possino rendere la dottrina in quello
contenuta non ben sicura né incolpabile; se però,
quello che communemente ed umanamente suole accadere,
l'interesse proprio non m'inganna, essendo il contenuto
di tutto il detto capitolo non altro che una moltitudine
di obiezzioni che egli bene acutamente fa contro ad una
mia particolare ed antiquata opinione, nella quale ho
creduto ed affermato, quel tenue lume secondario che
nella parte tenebrosa della luna si scorge, massimamente
quando ella è poco remota dalla congiunzione col Sole,
essere effetto cagionato dal reflesso de' raggi solari
nella superficie del nostro globo terrestre: al che egli
contradice con molte opposizioni, le quali, contro al mio
desiderio, mi pare che non necessariamente convincano la
mia opinione di falsità. E dico contro al mio
desiderio, perché non vorrei che anco questa nota,
benché piccola, macchiasse il suo, in tutto il resto,
così puro e candido trattato; che nelli scritti miei,
che poco di peregrino e di apprezzabile si contiene, poco
di pregiudizio è l'aggiugnere a tante altre mie fallacie
questa qui ancora; ché bene in un panno rozo e vile
manco noiano la vista molte grandi ed oscure macchie che
in un drappo vago e per la moltitudine de' fiori
riguardevole non farebbe una benché minima.
Proporrò dunque quelle risposte che al presente
paiono sollevarmi con speranza di dover poi, con mio util
particolare, esser dalle sue dottissime repliche tolto di
errore e condotto nel possesso del vero, qualunque volta
queste mie risposte gli venissero agli orecchi. Ma prima
che io descenda a esaminar la forza delle sue obiezzioni,
voglio, per mia satisfazione, raccontare all'Altezza
Vostra Serenissima i miei primi moti, dai quali io fui
indotto a credere che di questo tenue lume secondario,
che nella parte del disco lunare non tocco dal Sole si
scorge (il quale, per brevità, con una sola parola nel
progresso chiamerò candore), sola ed originaria
cagione ne fusse il reflesso dei raggi solari nella
superficie del globo terrestre. Avendo ed una e due volte
osservato il detto candore, mosso dal natural desiderio
d'intender le cause delli effetti di natura, il primo
concetto che mi cadde in mente fu, che tal candore
potesse essere proprio dell'istessa sustanzia e materia
del globo lunare e per certificarmi se ciò potesse
essere, aspettai curiosamente il tempo della prima
eclisse totale di essa Luna, sicuro che quando ella per sé
stessa ritenesse tal lume, molto e molto più splendido
ci si mostrerebbe nelle tenebre della notte profonda, che
nella chiarezza del crepuscolo; in quel modo che
incomparabilmente lo splendore della medesima Luna,
conferitole dal Sole, più bello e grande ci si
rappresenta nella notte oscura, che non solo nel mezo
giorno, ma nell'ora del crepuscolo ancora. Venne
l'eclisse; e restando ella talmente oscura, che del tutto
restò inconspicua, fui reso certo, il candore non esser
nativo suo, e però necessariamente doverle esser
conferito ab extra. E perché ad illuminare un
corpo opaco ed oscuro vi è necessario il beneficio di un
altro ben risplendente, né trovandosi al mondo altri che
le stelle erranti e fisse, il Sole e la Terra, in quanto
dal Sole è illustrata, venivo di necessità tratto a
ricorrere e a far capo ad alcuno di questi. E cominciando
dal Sole, essendo manifesto quanto grande sia
l'illuminazione che esso le manda e che nello emisferio
lunare ad esso esposto si deve, giudicai, il candore che
nell'altro emisferio, non visto dal Sole, si diffonde,
non potere essere opera dei raggi solari. Né meno
potersi attribuire al resto dei lumi celesti, cioè delle
stelle: imperochè la vista loro non vien tolta alla Luna
posta nelle tenebre dell'eclisse; onde quelle pure
illustrandola sempre egualmente, molto più lucida ci si
rappresenterebbe nell'oscuro campo della notte, che nel
crepuscolo; di che accade tutto l'opposito. E perché
manifestamente si osserva, il candore farsi di grande
mediocre, e di mediocre minore e minimo, tal effetto in
conto veruno dalle stelle non può derivare. Restavami
sola la Terra, atta a poter satisfare a tutte le
particolarità, col non fare ella verso la Luna altro che
puntualissimamente quello che la Luna fa verso la Terra,
illuminando la sua parte oscura nelle tenebre della notte
col reflesso de' raggi solari, or più, or meno, or
pochissimo, or niente. E meco medesimo più arditamente
discorrendo, dissi: Sono la Luna e la Terra due corpi
opachi e tenebrosi egualmente; vi è il Sole, che di pari
illustra continuamente un emisferio di ciascheduno
lasciando l'altro oscuro; e di questi, la Luna è potente
a illuminare l'oscuro della Terra: oh perché si dovrà
metter in dubbio che il luminoso della Terra non
incandisca l'oscuro della Luna? Parvemi questo discorso
talmente ragionevole, che io presi ardire di palesarlo,
stimando che dovesse esser ricevuto come concludente; né
è restato il mio creder vano, poiché niuno de i comuni
ingegni speculativi l'ha impugnato, sinché il discorso
dell'eccellentissimo signor Liceti, sopra tutti gli altri
eminente, ha con grand'acutezza penetrato, tal mio
pensiero ed opinione essere stata manchevole. Tuttavia, o
sia per mia debolezza ed incapacità, o pure che le
impugnazioni non siano di quella strettissima necessità
che nella assoluta demostrativa scienza si richiede, non
mi conosco ancora per al tutto convinto; e perché in me
non cessa il desiderio di sapere, bramando di esser tolto
del dubbio e posto nel certo, communicherò a lei tutto
quello che mi occorre potersi dire in risposta alle sue
contradizzioni, per mantenimento della mia opinione.
E facendo principio dal titolo del capitolo 50, che è:
De Lunæ subobscura luce, prope coniunctiones et in
deliquiis observata; digressio physico-mathematica,
già che egli medesimo le dà titolo di digressione, è
manifesto segno di averla esso stimata considerazione non
necessaria nel suo trattato, ma solo avervela interposta
per magnificarlo; conforme a quel che di sopra ho detto,
che la nobiltà e magnificenzia consiste più negli
ornamenti non necessarii, che in quelle cose che di
necessità devono esser portate. E sin qui approvo e
laudo il suo instituto, se non in quanto seco porta
indizio del mio non ben saldo discorso. E perché egli
procede come matematico e fisico, andrò esaminando come
filosofo, qualunque io mi sia, e come matematico le sue
opposizioni; facendo anco qualche poco di considerazione
intorno alla forma dell'argumentare che egli tal volta
tiene, quanto ella sia conforme a i dialettici precetti
posti da Aristotele.
Piglio dunque la sua prima instanza, contenuta dal
principio del capitolo sino a «Dein vero, quum in
plenilunio Terra» etc. Mentre io vo con attenzione
esaminando questo primo discorso, lo trovo veramente con
bello artifizio tessuto; e l'artifizio mi si rappresenta
tale. Due parti si contengono in esso conteste: l'una è
nella quale ei vuol dimostrare, il candor della Luna non
potersi in modo alcuno riconoscere dalla Terra; l'altra
è il concludere, tal effetto procedere dall'etere
ambiente essa Luna. Quanto alla prima, molto
probabilmente cammina il suo discorso, dicendo, il candor
della Luna non poter derivare se non da quel corpo dal
quale provengono le differenze di esso candore, le quali
differenze sono il farsi tal candore or più ed or meno
lucido: e questo non può provenire dalla Terra,
avvengaché la sua lontananza dalla Luna non si muta: e
però il reflesso della Terra deve esser sempre uniforme,
ed in conseguenza impotente a produr differenze in esso
candore; adunque, né meno il candor medesimo. Il
discorso, pigliandolo a tutto rigore, patisce non leggier
mancamento: il quale è, che nel raccorre la conclusione
dalle premesse, s'introduce un quarto termine, non
toccato nelle premesse, il quale è la Terra. Sono le
premesse: «Un effetto mutabile non può provenire da
causa immutabile: il candore è effetto mutabile; ma la
distanza tra la Terra e la Luna è immutabile; adunque il
candore non può provenir dalla Terra». Ora questo
termine «Terra» non è posto nelle premesse, ma vi è
in suo luogo «distanza tra la Terra e la Luna»; onde, a
voler che l'argumento cammini in buona forma, bisognava,
avendo detto nelle premesse «Un effetto mutabile non può
provenire da causa immutabile; ma la distanza tra la
Terra e la Luna è immutabile», bisognava, dico, dir
nella conclusione «Adunque il candore non procede dalla
distanza tra la Terra e la Luna»: ed il silogismo,
raddrizzato così, quanto alla forma procedeva bene, ma
non concludeva niente contro di me. Ho detto che a tutto
rigore ne seguirebbe questo inconveniente; ma avendo
riguardo a quello che, per mio credere, il signor Liceti
aveva in intenzione, figuriamo l'argumento in miglior
forma, dicendo: «Un effetto mutabile non può derivare
da causa immutabile: ma la distanza tra la Luna e la
Terra è immutabile, ed immutabile parimente è lo
splendor della Terra; adunque il candore non può
provenire né dalla distanza tra la Luna e la Terra, né
dallo splendore della Terra; ed in conseguenza non può
provenire dalla Terra». Non si può negare che il
discorso in questa maniera raddrizzato apparisce tanto
concludente, che facilmente potrebbe essere ammesso per
sincero e libero da ogni fallacia da qualsivoglia
filosofo; e tanto più ciò mi persuado, quanto che
l'istesso signor Liceti, da me stimato per filosofo a
nissun altro secondo, per niente manchevole lo ha creduto:
e pure tra poco spero di esser per dimostrarlo manchevole.
In tanto per ora, ammessolo per concludente, dico che
egli non fa punto contro di me, il quale non ho mai detto
né scritto che alla produzzione del candore si ricerchi
la mutazione della distanza tra la Terra e la Luna o la
mutazione dello splendore della Terra. È stato pensiero
del signor Liceti; il quale, immaginandosi che di tal
mutazione non possa esser causa altro che il variarsi la
distanza o il mutarsi lo splendore, si è persuaso che
escludendo queste due cause venga distrutta la mia
opinione. Se io avessi detto che la Terra cagionasse il
candore nella Luna con l'appressarsele o discostarsele, o
col farsi ella or più splendida ed or meno, egli mi
averebbe convinto di errore col mostrare che la Terra né
si avvicina o discosta dalla Luna, né diviene una volta
più vivamente splendida che un'altra. Resto io pertanto
sin qui illeso dalla sua prima impugnazione, nella quale
è bene ora che veggiamo se vi sia ascosa dentro alcuna
fallacia, sì come, ingenuamente parlando, credo che
ascosa vi sia: e per farla palese, prima mostrerò in
generale che ella vi è; dipoi tenterò di additare, dove
e quale ella sia in particolare
Che fallacia assolutamente vi sia, lo provo col
tessere un argumento formato su le vestigie del suo,
senza slargarmene pure un capello, deducendone poi una
conclusione falsa; la quale vera doverebbe esser
riuscita, quando nella forma dell'argumento non fusse
stata fallacia. Formando dunque l'argumento su le sue
pedate, proverò che quel lume che la notte si scorge in
Terra, mentre che la Luna splendida si trova sopra
l'orizonte, e che communemente si chiama lume di Luna,
non è altrimenti effetto che, come da causa, dependa dal
reflesso de' raggi solari nella superficie della Luna,
dicendo così. Questo che noi chiamiamo lume di Luna è
effetto mutabile, e però non può derivare se non da
causa mutabile. Ma le cause mutabili, atte a produrre una
tal mutabilità, sono dal signor Liceti ridotte a due
capi: l'uno è l'avvicinare o discostare il corpo
illuminante da quello che deve essere illuminato; e
l'altro è il crescere o il diminuire lo splendore del
corpo illuminante. Il primo di questi due capi non ha
luogo: nella presente operazione, avvengachè, per
concessione pur del medesimo signor Filosofo, la Luna
mantiene sempre la medesima distanza dalla Terra; e
l'altro capo molto meno ci ha luogo il che è manifesto;
imperochè l'effetto che seguir si vede procede tutto al
contrario di quel che proceder dovrebbe quando pur lo
splendor della Luna si facesse ora più vivo e potente ed
ora meno. Imperciochè, essendo lo splendor della Luna
effetto dei raggi solari che la illustrano, chiara cosa
è che ei sarà più vivo quando ella è men lontana dal
Sole, e più debile nella sua maggior lontananza e però,
posta la Luna in congiunzione col Sole, lo splendore che
ella da lui riceve, più efficace sarà che quando ella
li è posta all'opposizione, trovandosi in questo luogo
più lontana dal Sole, che in quello, tanto quanto
importa il diametro del dragone, cerchio massimo
deil'orbe nel quale la Luna si rivolge; ed è manifesto,
che partendosi ella dalla congiunzione e venendo verso il
sestile e di lì al quadrato, ella si va continuamente
discostando dal Sole, continuando pure il discostamento
nell'aspetto trino, e finalmente conducendosi alla
massima lontananza nella diametrale opposizione. Si va
per tanto continuamente indebolendo lo splendore della
Luna: ma l'effetto suo in Terra procede al contrario
imperocché nel tempo della congiunzione l'illuminazione
in Terra è minima, anzi pur nulla, e si comincia a far
sensibile nel separarsi la Luna dalla congiunzione, né
molto si fa ella apparente sino allo aspetto sestile; ma
continuando lo allontanamento della Luna dal Sole,
passando per il quadrato e trino, sempre il lume di Luna
in Terra si fa maggiore e maggiore, sin che diviene
massimo nella opposizione. Poiché dunque la mutazione
nel lume il fa al contrario di quel che far si dovrebbe
quando tal mutazione dependesse dal farsi lo splendore
della Luna or più or meno grande e gagliardo; chiara
cosa rimane, che né anco il secondo capo ha luogo. In
questa operazione del farsi il lume in Terra or più or
meno vivace. Adunque non ha la Luna parte alcuna nella
mutazione di quel lume in Terra, del quale noi parliamo;
e non avendo ella parte in tal mutazione, per la
verissima ipotesi del medesimo Filosofo né meno lo
stesso lume sarà effetto della Luna: tuttavia egli pure
tanto manifestamente depende dalla Luna, che niuno degli
uomini si troverà che vi ponga dubbio. E veramente
dubbio non vi si può porre, mentre che la causa della
mutazione, cioè del farsi di piccolissimo, e di giorno
in giorno andar crescendo, sin che grandissimo divenga, a
tanto manifesta, che non è uomo che non la comprenda, e
non vegga che la Luna nuova poco o niente può illuminar
la Terra, non ci mostrando del suo emisferio illuminato
dal Sole altro che una sottilissima falce, la quale la
sera seguente fatta più larga, e di sera in sera
ingrossando le sue corna, allargatasi per buono spazio
dal Sole, comincia a rendere osservabile l'effetto del
suo splendore, quanto all'illuminar la Terrai ridottasi
poi, dopo sette o otto giorni al quadrato, scuopre alla
Terra di sè la metà del suo emisiferio splendido; e
seguitando di allontanarsi ancor più dal Sole, più e più
di sera in sera mostra ampla la sua figura d'intero e
perfetto cerchio, grandissima ne produce in Terra la sua
illuminazione.
Io veramente mi meraviglio che l'eccellentissimo
signore, di ingegno tanto provido in contemplare e
penetrare le cause e gli effetti meravigliosi della
natura, non so per qual ragione, non abbia fatto reflesso
sopra così patente causa della mutazione del lume di
Luna in Terra; o perché, avendovela fatta, non l'abbia
poi riconosciuta nello splendore della Terra nel produrre
simile mutazione nel candor della Luna, mentre che il
negozio cammina nell'istessa maniera puntualissimamente.
Cioè, perché, stante sempre un intero emisferio della
Terra illustrato dal Sole, la Luna non però si trova
perpetuamente costituita in sito tale, che continuamente
se gli opponga o scuopra o tutto o la medesima parte del
detto emisferio terrestre luminoso; ma talora lo vede
tutto, talora ne perde una parte, e poi un'altra
maggiore, e finalmente ancora ne perde il tutto. L'intero
ne vede la Luna posta alla congiunzione col Sole; nel
qual tempo, esponendo essa Luna il suo emisferio opaco,
non tocco da i raggi solari, alla Terra, sommamente viene
incandita dalla piazza immensa luminosa di quella.
Partendosi poi dalla congiunzione, comincia a scoprire
una particella dell'emisferio tenebroso della Terra,
rimanendole però veduta grandissima parte ancora del
luminoso; onde il suo candore si debilita alquanto, e va
continuamente debilitandosi mentre che, nello
allontanarsi dal Sole, va sempre di giorno in giorno
perdendo di vista parte maggiore del terrestre emisferio
luminoso, sin che, giunta al quadrato, scuopre del
terrestre emisferio, esposto alla sua vista, la metà
dell'illuminato, e l'altra metà del tenebroso: cresce
dunque la causa del diminuirsi il candore. E così,
continuando di perdersi di sera in sera maggiore e
maggior parte dell'emisferio splendido della Terra, il
candore si fa a poco a poco impercettibile, sendo anco di
gran pregiudizio a gli occhi del riguardante la presenzia
della parte molto lucida della Luna, che confina con
quello che di lei resta privo della illuminazione del
Sole. Al che possiamo aggiugner ancora (come punto di
gran considerazione) la chiarezza che il medesimo lume
lunare introduce nel suo ambiente, la qual chiarezza è
tanta, che ci offusca e toglie la vista delle stelle
fisse, le quali anco per assai grande spazio son lontane
dalla Luna; tal che molto meno ci deve restar cospicuo il
candore, anco per altro, tenuissimo fatto.
Parmi, Serenissimo signore, d'aver sin qui a bastanza
dimostrato come l'opinion mia resta illesa da questa sua
prima obbiezzione, ed insieme aver concluso che nella sua
instanza è forza che sia qualche fallacia. Séguita ora
che io dichiari in quel che a me pare che la fallacia
consista: ed è, s'io non m'inganno, che argumentando
egli ex suppositione quello che egli suppone è
mutilo; e dove egli è almanco di tre membra, ne prende
solamente due lasciando indietro il terzo. Del potersi
fare il candore, o altra illuminazione, maggiore o
minore, ne assegna il signor Liceti due modi solamente:
cioè il mutarsi la distanza tra il corpo illuminante e
il corpo che si illumina, che è l'uno de i modi; e
l'altro, col farsi lo splendore dello illuminante
intensivamente più o meno gagliardo. Ma ci è il terzo,
il quale è quando non intensivamente, ma estensivamente,
si fa maggiore quella luce da cui l'illuminazione deriva:
e così il lume di una torcia grande più gagliardamente
illuminerà che d'una piccola candela, benché gli
splendori di amendue intensivamente siano eguali. Ora qui
averei voluto che il signor Liceti avesse considerato,
quanto questa terza maniera è più potente in produrre
l'effetto della mutazione del lume di Luna in Terra.
Imperocché l'ingrandirsi estensivamente lo splendore
della Luna, come fa, mostrandosi da principio in figura
di una sottilissima falce, andandosi poi pian piano e di
sera in sera dilatando, cioè facendosi estensivamente
maggiore, gran mutazione di accrescimento produce
nell'illuminar la Terra, ancorché intensivamente vadia
debilitandosi, onde per tal rispetto il lume dovrebbe
farsi men vivo. Debolissima dunque è l'efficacia delle
altre due maniere, in comparazione di questa terza, la
quale l'Altezza Vostra Serenissima vede quanto sia
gagliarda.
Sarà bene adesso che andiamo esaminando quello che
operar possa circa l'incandire la Luna il reflesso del
suo etere ambiente dal signor Liceti assegnato per vera
cagione dell'effetto: la quale dubito che non possa
essere se non assai languida ed inefficace. Ma prima che
io venga a questo, voglio qui interporre un mio, tal qual
si sia, pensiero, per ritrovar l'origine donde sia
proceduto il restare per tanti secoli passati occulta a
gli ingegni speculativi questa, per mio credere, assai
vera e concludente ragione, del derivare il candor della
Luna veramente dal reflesso de' raggi solari nella
terrestre superficie. Mentre che il Sole è sopra
l'orizonte ed illumina il nostro emisferio terrestre, in
qualsivoglia luogo che sia posta la Luna, il candor di
lei non ci si rende visibile; per lo che nessuno in tal
tempo si sarebbe mosso a credere né a dire che il lume
della nostra Terra avesse forza di illuminare la parte
della superficie lunare non tocca dal Sole onde molto
meno gli potrebbe cadere in mente che la superficie della
Terra priva di splendore fosse potente a incandire la
Luna, cioè fusse potente, essendo tenebrosa, a portar
luce là dove ella non la portò essendo luminosa. Quando
dunque, tramontato che sia il Sole ed imbrunita la nostra
Terra, mentre si vede scoprirsi il candore nella Luna, il
giudizio popolare ad ogni altra cosa lo potrebbe
referire, fuorché alla Terra: per lo che gli uomini,
persuasi da questa prima e semplice apprensione, o non vi
fecero reflessione, o cercarono di ritrovarne la ragione
in ogni altra cosa fuorché nello splendor terrestre.
Ora, varii sono i riscontri e le ragioni le quali mi
distolgono dal prestar l'assenso all'opinione del signor
Liceti, che il candore lunare sia effetto di una parte
del suo etere ambiente, la quale, come alquanto più
densa dell'etere purissimo che il resto del cielo
ingombra, possa ricevere e ripercuotere i raggi solari
nella parte tenebrosa della Luna; in quella maniera che
la parte dell'aria contermina alla Terra, fatta densa
dalla mistione de i vapori, riceve lume da i raggi
solari, e quello reflette sopra la Terra, producendo il
crepuscolo e l'aurora. E perchè, oltre a questo, egli
suppone che la Luna pure abbia per se stessa alquanto di
lume, suo proprio e naturale; questo parimente e
primieramente non credo io esser vero, né potere, quando
pur vero fusse, averci parte alcuna: né so penetrare da
che cosa mosso egli ve lo abbia voluto introdurre. E
prima, che egli non vi sia, ce ne rende sicuri il perder
noi talvolta del tutto di vista la Luna, quando ella,
nella sua totale eclisse, nel mezo del cono dell'ombra
terrestre si riduce; che quando ella avesse qualche
proprio lume, benché tenue, nella profondissima notte si
farebbe visibile; tal lume proprio non ha dunque la Luna.
E quando ben ne avesse, non potendo egli esser se non
tenuissimo, di niente potrebbe aiutare il candore, il
quale è molto grande in quella maniera che niente opera
il lume della Luna circa l'lluminar la Terra, qualvolta
il Sole, elevato sopra l'orizonte, con i suoi lucidissimi
raggi l'illustra; ché quando la notte, in assenza de:
Sole, la Luna piena di splendore non ci avesse
illuminato, giammai di giorno, alla presenza del Sole,
non averemmo potuto assicurarci della illuminazione della
Luna e così nel gran campo del candore, molto bene
luminoso, ogni altro picciol lume resterebbe offuscato e
come nullo. Quanto poi all'operazione dell'etere
ambiente, circa il candire la Luna, non veggo che in modo
alcuno possa satisfare a quello che al senso ci apparisce
imperoché tutto il campo tenebroso della Luna è
egualmente candito, e non intorno alla circonferenzia
solamente, dove solo per breve spazio si dovrebbe
distendere il lume che dallo etere ambiente le perviene;
in quel modo che il reflesso della parte dell'aria
vaporosa solamente tal parte dell'emisferio terrestre
illustra, qual parte è il tempo della durazione del
crepuscolo del tempo della lunghezza di tutta la notte
che se l'illuminazione del crepuscolo potesse diffondersi
sopra tutto l'emisferio terrestre, non averemmo mai notte
profonda, ma un'aurora o un crepuscolo perpetuo; ed
avvengaché secondo che in maggiore altezza si sublimasse
l'orbe vaporoso intorno al globo terrestre, tanto più
diuturno si farebbe il crepuscolo, in immensa Altezza
converrebbe che si elevassero i vapori per illuminare
l'intero emisferio. Ora, quando il signor Liceti volesse
mantenere che il candore che può illustrare tutto
l'emisferio tenebroso della Luna, derivasse dal reflesso
dell'etere ambiente, sarebbe in obbligo di insegnarci a
quanta altezza, o vogliamo dir distanza, fuor dell'orbe
lunare dovesse tal parte d'etere addensato sublimarsi;
nella quale impresa, oltre che alquanto laboriosa gli
riuscirebbe, credo che incontrerebbe assai gagliarde
contraindicanze. Una delle quali è, che giammai in verun
modo potrebbero le parti di mezo essere egualmente
luminose come le altre più verso la circonferenza, ma
grandemente più tenebrose, avvenga che le parti intorno
alla circonferenza goderebbero non solo delle parti a sé
contigue, ed anco delle prossime, ma di tutte le remote
ed altissime; dove che le parti di mezo, restando prive
della vista delle prossime e tangenti l'estremo limbo,
riceverebbero il lume solamente dalle alte e remote: ora,
quanto importi l'avere l'illuminante prossimo, più che
l'averlo lontano, per esser più vivamente illuminato, è
tanto per sé manifesto, che non occorre spendervi più
parole. E doppo questa ci è un'altra contraindicanza,
pur gagliardissima; e questa è, che nel farsi l'eclisse,
finito che fusse di entrare nel cono dell'ombra il disco
lunare, restando ancora fuor di tal cono gran parte
dell'etere alto che la Luna circonda, essendo ancora
questo visto ed illuminato dal Sole, pure continuerebbe
di incandire ancora la medesima faccia della Luna, e
massimamente la parte conseguente all'ultimo orificio che
si sommerse nell'ombra: al che troppo altamente repugna
l'esperienza, la quale ce lo mostra bene alquanto sparso
di luce, e, per mio credere, conferitale dallo etere suo
ambiente, ma tal luce con infinita proporzione minore del
vero candore; il quale, se nella profonda notte potesse
conservarsi, io tengo per fermo che ei sarebbe potente a
illuminarci, non ardirò di dire quanto la Luna nel suo
plenilunio, ma che non cederebbe a quello che ci viene
dalle corna della Luna posta presso all'aspetto sestile.
E finalmente, del non potere il candore in verun modo
essere effetto dell'etere ambiente, molto chiaramente lo
mostra la gran diminuzione che in esso si scorge dal
partirsi dalla congiunzione col Sole sino all'arrivare al
quadrato, alla qual diminuzione converrebbe che
proporzionalmente rispondesse la diminuzione del lume
nell'etere ambiente; la quale non può esser se non
piccolissima e per avventura insensibile, non si potendo,
come il medesimo signor Liceti afferma, riconoscere da
altro che dallo allontanamento di esso etere dal Sole. Ed
ancorché né l'etere ambiente né il suo lume scorgiamo,
nulladimeno quale possa essere la diminuzione di quello,
lo possiamo argumentare dalla diminuzione di splendore
che nel corpo stesso della Luna si scorge, mentre che
alla lontananza, che è tra il Sole e la Luna posta nel
quadrato, si aggiugne quello di più che ella si scosta
passando dal quadrato all'opposizione: e veramente credo
che niuna vista possa esser bastante a comprendere, lo
splendore della Luna nel quadrato essere intensivamente
maggiore che nella opposizione; e così il lume
dell'etere ambiente nella congiunzione della Luna col
Sole poco scapiterà nel ridursi alla quadratura, perché
finalmente il suo discostamento non è altro che la
trentesima parte della distanza tra il Sole e la Luna
postagli in congiunzione; onde, a tal ragguaglio, il lume
in questo luogo potrà diminuirsi per la trentesima parte
appena, nel venire al quadrato. E tale per consequenza
doverebbe essere la diminuzione del candore nella Luna,
cioè appena sensibile: ma ella è non pur sensibile, ma
assai grande; e ben grande può ella essere, mentre che
nella congiunzione viene il disco lunare incandito
dall'intero emisferio splendido della Terra, dalla cui
metà solamente viene ella illustrata nella quadratura.
Ora venghiamo al secondo argumento, leggendo sino a «Deinde
Luna prope coniunctiones» etc. Io di questo argumento
concedo tutte le premesse, ma non concedo già che non ne
segua quello che dalla concessione di esse seguir ne
dovrebbe; anzi affermo che puntualmente ne séguita e che
così si scorge, cioè che, per esser la Terra più da
vicino illuminata dal Sole che la Luna posta in
opposizione, e che per esser l'emisferio terrestre molto
e molto maggiore, cioè circa dodici volte, di quello
della Luna, il candore lunare dovrebbe di gran lunga
superare il lume di Luna in Terra; ed affermo di più che
così segue, che è quello che dal signor Liceti vien
negato, affermando egli vedersi il contrario, cioè molto
più debole il candore della Luna che l'illuminazione
terrestre derivante dalla Luna piena: e perché ei dice
ciò vedersi, mi sarebbe parso necessario il dichiarare
la maniera come tal vista possa ottenersi con sicurezza e
senza che il senso si ingannasse. Imperoché, mentre io
vo ricercando di assicurarmi della verità del fatto,
trovo che non mancano circustanze, per le quali il senso,
nella prima apprensione, può errare ed esser bisognoso
di correzzione, da ottenersi mediante l'aiuto del retto
discorso razionale. Io veramente, domandando persone anco
di bonissimo giudizio, quale si rappresenti all'occhio,
più vivo e risplendente, o il lume di Luna in Terra, o
il candore nella Luna, mi sento subito rispondere, che di
gran lunga è superiore il lume di Luna; tuttavia credo
che, applicando il discorso e la considerazione a gli
accidenti che la prima apparenza possono perturbare, si
troverà potere essere, ed in fatto essere, il contrario
di quello che a prima vista si giudica. E prima, essendo
assai manifesto che l'istesso corpo lucido, potente a
illuminare altri corpi tenebrosi, più e più vivamente
gli illustra secondo ch'ei sarà meno e meno lontano da
essi; da questo effetto notissimo e chiaro parmi che con
assai conveniente proporzione si possa anco affermare,
che alla vista nostra meno risplendente si mostri il
medesimo oggetto luminoso, posto in grandissima
lontananza dall'occhio, che postoci molto da vicino. E se
così è, vorrei che il signor Liceti avvertisse, che nel
voler noi far paragone del lume di Luna in Terra col
candor della Luna vicina alla congiunzione, e di essi
giudicare quello che alla prima vista si rappresenta,
avvertisse, dico, che la Terra illuminata dalla Luna non
è dall'occhio nostro più lontana di tre o quattro
braccia, lontananza incomparabilmente minore di quella
della Luna candente posta alla congiunzione, la quale
eccede di assai trecento milioni di braccia: qual dunque
meraviglia è che, posto anco che il candor della Luna
fusse eguale all'illuminazione della Luna in Terra, in
tanta differenza di lontananza ci apparisse minore?
Eccellentissimo signor Liceti, per giudicare nella
presente causa senza fallacia, bisognerebbe che, notato a
parte quello che vi si rappresenta alla vista mentre che,
stando in Terra, guardate il lume di Luna in Terra,
paragonandolo al candor della Luna quando poi è posta
nella congiunzione, notaste ancora a parte quello che vi
si rappresenterebbe alla vista quando voi foste
constituito nella Luna incandita dal lume terrestre, e di
lì poteste poi vedere la Terra, da voi lontanissima,
illuminata dalla Luna; e se nell'una e nell'altra
esperienza voi trovaste che la Terra si mostrasse più
candida della Luna incandita postavi sotto i piedi, bene
e concludentemente avereste sentenziato; ma dubito che la
seconda esperienzia vi farebbe mutar parere, e giudicare
tutto l'opposito di quello che la prima vista intorno a
questo vi persuase. Cessi per tanto la fede che in questo
caso l'intelletto deve prestare al senso. Ed aggiunghiamo
di più, che di due oggetti visibili, ma in grandezza
diseguali, il minore meno ingombrerà l'occhio di luce
che il maggiore, ancorchè amendue fussero dell'istesso
splendore in specie. Ora notisi che il disco lunare viene
compreso sotto un angolo acutisimo, avvengaché la sua
base non suttenda più che a mezo grado: ma l'angolo che
dalla massima divaricazione de i raggi visivi si
constituisce nell'occhio, essendo più grande che retto,
suttende a più di novanta gradi interi e questo viene
tutto ingombrato dall'area e piazza luminosa della Terra,
mentre che da vicino la rimiriamo: essendo adunque
l'ampiezza di questo grande angolo circa dugento volte
maggiore dell'altro acuto, che comprende il disco lunare,
meraviglia non abbiamo a prenderci dell'apparente
maggioranza di luce nel rimirar la Terra, che la Luna
incandita. Taccio che della differenzia dei nominati due
angoli lineari molto e molto maggiore è quella delli
angoli solidi, da essi lineari nascenti: e veramente
angoli solidi sono i compresi dentro a i coni formati da
i raggi visuali, de i quali angoli quello che ha per base
la parte, ancorché piccolissima, della terrestre
superficie all'occhio esposta, a ben più di quaranta
mila volte maggiore dell'altro, che si fonda sul disco
lunare.
Non è dunque meraviglia che il senso nella prima
apparenza distortamente giudichi nella presente causa:
però sarà bene che veggiamo se ci è modo di
correggerlo; e potendo per avventura i modi e le maniere
esser molte, io per ora ne proporrò una o due. E già
che noi non possiamo mettere a petto a petto il candor
della Luna ed il lume di Luna in terra, parmi che assai
sicuramente potremmo giudicare tra essi facendo parallelo
di amendue ad un terzo lume di un corpo illuminato:
imperoché se accadesse che lo splendore di questo terzo
superasse il lume di Luna, ma fusse superato dal candor
della Luna, senza dubbio credo che potremmo asserire, il
candor della Luna superare il lume di Luna in terra. Mi
si rappresenta, atto mezo termine per ciò fare esser lo
splendore del crepuscolo, facendo comparazione ad esso
del lume de gli altri due. Tramontato che sia il Sole,
vedesi rimanere per buono spazio di tempo la superficie
della Terra assai chiara, mercé del crepuscolo, cioè
molto più che quando è illustrata dalla Luna piena; il
che manifestamente si scorge dal veder noi qualsivoglino
minuzie in terra molto più distintamente in virtù del
crepuscolo, che non si scorgono, passato esso,
nell'illuminazione della Luna. Il quale effetto anco
apertamente si conferma: perché se averemo in Terra
qualche corpo oscuro, come, per esempio, una colonna o la
nostra persona medesima, la illuminazione della Luna
piena non farà far ombra in Terra a esso corpo tenebroso
sin che il lume del crepuscolo non sarà di molto
scemato, cioè sin tanto che il lume della Luna gli
prevaglia; segno evidente, questo della Luna esser a
quello, da principio e per lungo spazio di tempo, assai
inferiore. Ma aggiunghiamo un'altra esperienzia, che pure
ci conferma, l'illuminazione del crepuscolo superare di
assai l'illuminazione del plenilunio. Osservisi qualche
grande edifizio posto sopra luogo eminente, in lontananza
da noi di quattro o sei o più miglia: certo per assai
lungo spazio dopo il tramontar del Sole dureremo noi a
scorgerlo bene, e tal vista non perderemo se non dopo
notabile diminuzione del lume crepuscolino; ma se,
estinta la illuminazione del crepuscolo, sopraverrà la
illuminazione del plenilunio, potrà molto bene accadere
che il medesimo edifizio più da noi non si scorga. Cede
dunque di assai il lume di Luna al lume del crepuscolo:
ma all'incontro, per scorgere il candore nella Luna non
ci fa di mestiero aspettare che tanto si debiliti il lume
crepuscolino, ma di non piccol tempo avanti che la Luna
muova l'ombre, lo vedremo noi biancheggiare nel medesimo
lume crepuscolino: cede dunque il lume di Luna al candor
della lunare superficie.
Ma finalmente con nodo, al mio parere insolubile,
veggiamo stretta e confermata la verità della mia
conclusione dico dell'essere il candor della Luna effetto
del reflesso de' raggi solari ripercossi dal globo
terrestre. Stima il signor Liceti, il candor della Luna
essere effetto del reflesso de' raggi solari nell'etere
alquanto condensato che da vicino circonda il globo
lunare, in quella guisa che l'orbe vaporoso circonda la
Terra; e del tutto esclude il reflesso della Terra, come
nullo: io ammetto al signor Liceti il reflesso dell'etere
ambiente, ma vi aggiungo il reflesso della Terra, che
egli nega, e questo assai più potente che quello
dell'etere: ed avvenga che il signor Liceti reputi nullo
questo, da me stimato per principale, adunque di niuno
pregiudizio dovrà essere al candore della Luna il
privarla di questo, che io reputo benefizio concernente
al produr tal candore, purché se gli lasci il reflesso
dell'etere ambiente. E per ciò fare compitamente,
ponghiamo la Luna in opposizione al Sole, onde verso di
lei nulla si esponga dell'emisferio terrestre luminoso,
ma solo riguardi verso lei l'emisferio tenebroso; ed in
tal consultazione ponghiamo che segua l'eclisse totale
della Luna, sì che ella perda ancora la illuminazione de
i raggi primarii del Sole, onde resti spogliata di questi
e del tutto priva della vista della faccia luminosa della
Terra. Qui è manifesto, che non così immediatamente che
il corpo lunare si è finito d'immergere nel cono
dell'ombra terrestre, si è finito di immergere ancora
l'orbe dell'etere che lo circonda, ma ne resta parte
fuori; la qual parte godendo ancora de i raggi solari, può
incandire quella parte del corpo lunare che fu l'ultima a
cadere nell'ombra ed in questo tempo potremo noi scorgere
qual sia il candore prodotto dal solo etere ambiente. Ma
questo poco che si vede, non si diffonde per tutta la
faccia della Luna, ma solamente in parte del suo limbo; né
la grandezza del suo lume ha che fare col candore grande
ed argenteo che si vede nella congiunzione, ma a una
assai tenue tintura bronzina ché quando fusse in spezie
così vivace quale è il candore, vivacissimo e molto più
limpido dovrebbe dimostrarsi in questo tempo
dell'eclisse, mentre che la Luna si trova constituita in
un campo molto oscuro, cioè nelle tenebre della notte,
dove che, all'incontro, il candore del novilunio viene da
noi veduto nel campo ancora assai chiaro del crepuscolo.
Vedesi dunque, che privata la Luna del reflesso della
Terra, e favorita solo da quello del suo etere ambiente
perde a molti doppi quel bel candore per lo che ben
necessariamente doviamo concludere, pochissima essere la
parte che vi ha il reflesso dell'etere ambiente; anzi
pure vi è ella come nulla, mentre le sopragiugne il
tanto più vivace e potente reflesso della Terra
Qui prima che passar più avanti, non voglio tacere
certa meraviglia che mi nasce nell'animo; ed è, che
avendo il signor Liceti detto di voler discorrere nella
presente materia fisicomatematicamente, nella presente
occasione ci si serva solo della fisica, tralasciando la
matematica: perché cosa da fisico e naturale è stata il
formar giudizio tra il candor della Luna e il lume di
Luna dalla prima e sensuale apparenza; nel qual giudizio
non credo ch'ei fusse con fallacia incorso, se egli
avesse aggiunto quello che ne insegna la matematica, cioè
che la lontananza della Luna candita dall'occhio è più
di cento milioni di volte maggiore della lontananza della
Terra, e che l'angolo visuale nascente dalla Terra è più
di quaranta mila volte maggiore che il nascente dalla
superficie lunare, le quali disuguaglianze, come non
piccole, hanno potuto perturbare il retto giudizio.
Quindi apprenda ciascuno quale è talvolta la differenza
tra il discorrere de i matematici e de i puri filosofi
naturali e perché, senza digredire dalla materia che si
tratta, mi si porge qui occasione di conferire
all'Altezza Vostra Serenissima certo mio concetto non
scritto da me in altro luogo, né credo toccato da altri,
glie le esporrò.
Mostra l'esperienzia come il sopranominato tenue
splendore bronzino, che resta nella faccia della Luna, ma
per breve tempo, dopo la sua totale adombrazione, il va a
poco a poco diminuendo: ed accade tal volta che pure
nelle totali e centrali eclissi tal lume del tutto si
ammorza, in guisa che del tutto si perde la vista della
Luna; ed alcun'altra volta, pur nelle stesse totali
eclissi, non così adiviene, ma resta il lunar corpo pure
alquanto apparente e visibile. Già è manifesto, tal
debolissima luce non le poter provenire né dal Sole né
dalla Terra, la vista de' quali le è del tutto tolta; né
meno essere effetto del suo etere ambiente, di già esso
ancora immerso nell'ombra e privato della vista del Sole;
né può tampoco esser nativo e proprio del corpo lunare,
poiché, se fusse tale, in tutte le eclissi si
scorgerebbe, come anco accaderebbe se fusse per avventura
effetto delle stelle sparse per l'immenso cielo; ed in
somma il punto grande della difficoltà consiste nel
seguire alcune volte sì ed alcune volte no questo totale
perdimento di vista della medesima Luna, il quale
effetto, per la sua variazione, ricerca varietà nella
causa effettrice. Io, doppo molte reflessioni di mente,
considerato che l'effetto del quale si cerca la causa è
effetto di lume, ho meco medesimo concluso, non potere
esso provenire se non da qualche cosa che abbia facultà
di illuminare, del benefizio della quale resti ora
favorita ed ora privata la Luna; né avendo noi altro di
lucido, atto a ciò poter fare, che i luminosi corpi
celesti, a quelli è forza ricorrere, e tra essi
investigare chi possa operare or sì ed or no
nell'effetto del quale parliamo. Se questo è effetto di
qualche stella, è necessario che ella, o vero alcuna
volta risplenda più ed altra manco, o vero che ella ora
sia esposta ed ora no alla vista della Luna; e conviene
anco che tale stella sia di non minima forza d'illuminare.
Tra i corpi celesti, trattone il Sole e la Luna, potenti
assai per la lor vicinanza e grandezza, la prima fra le
stelle mi si offre Venere, la quale in alcune
constituzioni col Sole, cioè circa alle massime
digressioni riluce tanto vivamente, che si vede la notte
i corpi ombrosi tocchi dal suo fulgore, sparger ombra, e
Giove appresso di lei con poca differenza far quasi il
medesimo effetto. Ora, stante questo, che pure è
verissimo, qualvolta accadesse che queste due stelle nel
tempo dell'eclisse lunare fussero verso la Luna talmente
costituite che la potessero ferire con i loro raggi,
potrebbero in consequenza conferirle qualche lume,
bastante per renderla visibile; e quando poi in altra
eclisse Giove fusse verso l'opposizione del Sole, ed in
consequenza dietro all'emisferio lunare a noi ascosto, e
che Venere, per l'opposito, fusse prossima alla
congiunzione col Sole, sì che la Terra, nel privar la
Luna della vista del Sole, le togliesse anco il veder
Venere, restando ella abbandonata da amendue tali
fulgori, resterebbe ancora a gli occhi nostri invisibile.
Potrebbesi ancora accomunare a questo benefizio qualche
stella fissa, e massime la più di tutte le altre
fulgente, dico la Canicola; e parmi poter far capitale di
queste tre sole, ed in particolare dei due pianeti, perché
debole è l'operazione di tutto il resto delle stelle
fisse. E veramente par nel primo aspetto cosa assai
maravigliosa, che lo splendore di tanti lumi celesti
abbia sì poco ad operare circa l'illuminare la Terra o
altro corpo da esse remotissimo: ma dovrà far cessare la
meraviglia il considerare quanto avanzi in grandezza il
disco solare, ed anco quello della Luna, la apparente
piccolezza delle stelle fisse, mercé dell'immensa loro
lontananza poiché per fare un'area o piazza luminosa
eguale al disco del Sole o della Luna composta di stelle,
ciascheduna anco eguale al Cane, non basterebbero
quaranta mila accoppiate e distese insieme: giudichiamo
ora quello che si può ricevere dalle quindici sole della
prima grandezza, insieme con le altre, poche più di
mille, e tanto minori, sparse per il Cielo. E ben che
moltissime siano quelle che per la loro piccolezza
restano invisibili, tuttavia veggiamo che di tali
piccolissime congiuntone gran numero insieme, finalmente
non formano altro che una piccola piazzetta sì poco
luminosa che gli astronomi passati chiamarono con nome di
stelle nebulose. E tanto basti per risposta alla seconda
instanza del signor Liceti.
E venendo alla terza, senta l'Altezza Vostra
Serenissima quello che l'autore scrive consequentemente,
sino alle parole: «Præterea vel ipse Clarissimus
Galileus, dum aliam opinionem» etc. Qui sì mi è lecito
liberamente parlare, non bene resto capace de i motivi
per i quali il signor Liceti inferisce, che posto che il
candor della Luna derivasse dal reflesso del lume
terreno, ei dovesse essere più illustre nel mezo della
sua faccia oscura, che nel rimanente verso l'estremo
margine; e mentre adduce per ragione di questo il
ricevere le parti di mezo più lume dalla Terra, e lo
sfuggire il medesimo lume dal margine estremo,
spargendosi nell'ambiente, io non veggo occasion nessuna
di ricever più luce nel mezo, né veggo che i raggi
dello splendore terrestre debbano sfuggire dall'estremo
limbo. Ciò forse accaderebbe quando il globo lunare
fusse terso e liscio come uno specchio; ma egli è
scabroso quanto la Terra se non più: e di questo non
riceversi maggior lume nel mezo che nell'estremo ambito,
pur troppo chiaramente ce lo mostra l'stessa Luna, mentre
che essendo ella, nella opposizione, piena di lume del
Sole, senza veruna differenza di mezo o di estremo
egualmente luminosa si mostra, argumento della sua
asprezza e del non sfuggire i raggi solari verso
l'estrema circunferenza; che quando ella fusse tersa come
uno specchio, giammai da gli uomini non sarebbe stata
veduta, come io diffusamente ho dimostrato altrove. Oltre
che, posto anco che la superficie lunare fusse tersa sì
che i raggi luminosi, che dalla Terra le pervengono,
potessero fuggire nel contatto estremo dell'orbe lunare,
e perciò quivi men vivamente potessero incandirlo, non
per questo all'occhio nostro tal diminuzione di lume
potrebbe esser compresa: e la ragione è questa. La
superficie luminosa della Terra, come quella che è
vicina alla Luna, ed in ampiezza è ben dodici volte
maggior di essa, molto più d'un suo emisferio abbraccia
ed illumina con i suoi raggi; all'incontro poi i raggi
nostri visivi, come quelli che non da una ampiezza così
grande quanto è l'emisferio terrestre sì partono, ma
escono da un punto solo, cioè dall'occhio nostro,
notabilmente meno di un emisferio lunare abbracciano;
talché oltre all'ultimo cerchio che i raggi nostri
visivi nella superficie lunare descrivono, una grande
striscia di luminoso resta tra essa e l'ultimo cerchio
che termina la parte della superficie lunare illustrata
dalla Terra, la quale striscia è a gli occhi nostri
invisibile. Perché dunque nella parte veduta da noi non
vi entra della poco luminosa, mercé dello sfuggimento
dei raggi terrestri, niuna diminuzione di candore
possiamo noi veder nella Luna. Di qui l'Altezza Vostra
Serenissima può vedere con quanto più salda ragione io
dichiaro che l'obiezzione del signor Liceti contro il
derivare il candore dalla Terra è invalida, e quanto,
all'incontro, valida e concludente sia la mia, posta di
sopra, in provare che il candore non sia effetto
dell'etere ambiente, mentre che io concludo che se ciò
fusse, il candore nelle parti di mezo dovria apparir più
oscuro che nell'estreme; la quale mia conseguenza non so
se il signor Liceti potesse così agevolmente rimuovere,
come ho potuto io ora rimuovere la sua, che il candore
nelle parti di mezo dovesse mostrarsi più chiaro che
nelle estreme, quando derivasse dalla Terra.
Quanto poi all'attribuirmi l'Autore, che io abbia
poste nella Luna concavità, le quali poi, a guisa di
cavi specchi, possino ripercuotere lume maggiore che
altre parti non concave; sia detto con pace del mio
Signore, io non ho mai né scritta né pronunziata tal
cosa. Sono nella superficie della Luna lunghi tratti di
asprissime montagne, gruppi di scogli scoscesi,
moltissimi spazii grandi e piccoli, circondati da argini
sublimi e per lo più di figure rotonde; veggonvisi
alcune cavità: ma che elle sieno terse, sì che a guisa
di specchi cavi possino ripercuotere i raggi, ciò è
alienissimo dal mio detto e dal mio credere; ma stimo
bene, tutte queste figure essere ruvide, aspere, ed in
somma quali in Terra se ne veggono, naturalmente e
rozamente composte. In oltre, quando pure nella faccia
della Luna fussero concavità più che qualsivoglia de i
nostri specchi pulite e lustrate, sì che
vivacissimamente potessero reflettere non meno il lume
terrestre che gli stessi raggi solari, che vedremmo noi
di tali raggi, reflessi nell'ambiente della Luna ?
Esposto uno de' nostri specchi concavi a' raggi diretti
del Sole, che lume reflettono essi, che punto illumini
l'aria nostra ambiente? Nulla sicurissimamente; e pure è
vero, tali raggi reflettersi gagliardissimamente, ed in
figura di cono andare ad unirà; ed esser veramente
potenti ad illuminare i corpi tenebrosi ed illuminargli
ancora più potentemente che l'istesso Sole: ma bisogna
nella cuspide del cono, o a lei vicino, porre qualche
materia densa ed opaca, la quale, tocca da tali raggi, si
vedrà splendere ed offender la vista più che l'istesso
Sole, e massime se lo specchio sarà grande; e se la
materia sarà combustibile, immediatamente si accenderà;
ed essendo fusibile, qual è il piombo o lo stagno, si
fonderà, ed il rame o altro metallo più duro si
infuocherà. Bisogna dunque per vedere il suo reflesso,
farlo incontrare in materia atta ad essere illuminata; e
finalmente potremo vedere manifestissimamente tutto il
cono, ponendogli sotto carboni accesi e buttando sopra
essi semola o incenso o altra cosa tale che faccia fumo;
e questo passando per i raggi del cono, si illuminerà, e
ci farà vedere quanto tali raggi reflessi siano più
vivi delli incidenti e primarii del Sole. Adunque, siano
pure quali e quanti si voglino specchi concavi nella
Luna, niente faranno più vivo lo splendore diffuso per
l'etere ambiente.
Io non credo che all'eccellentissimo signor Liceti sia
ignoto, che i raggi reflessi da uno specchio concavo non
vadano in figura di cono a unirsi se non in piccola
distanza da esso specchio, e che il loro vivacissimo lume
non può vedersi se non in qualche materia densa ed
opaca, la quale, tocca da i detti raggi, come ho detto,
acquista un lume più vivo che lo splendore dell'istesso
Sole: ma la parte aversa della detta materia niente si
illumina, essendo opaca; tal che a noi che siamo in
Terra, dove non credo che il signor Liceti fusse per dire
che arrivassero i coni de i raggi reflessi da gli specchi
concavi sparsi nella superficie della Luna, a noi, dico,
non toccherebbe a vedere se non le dette parti averse, le
quali verrebbero illuminate solo dalla superficie della
Terra, come il restante dell'emisferio lunare, e però ci
resterebbero elle indistinte dal resto del lunar disco.
Lascio stare che il metter lamine di materia opaca
separate dal corpo lunare e sospese nel suo etere
circunfuso, è cosa troppo ridicola, e da non ci far
sopra fondamento veruno. Ma più poteva il signor Liceti,
come fisico-matematico, raccorre dalle matematiche, che
non solo i piccoli specchietti concavi, sparsi nella
superficie lunare, non sono bastanti a far l'effetto che
egli ne deduce ma quando tutto l'emisferio lunare fosse
un solo specchio concavo o porzione di sfera tanto grande
che il suo semidiametro fusse l'intervallo che è tra la
Terra e la Luna, che è il medesimo che dire che ei fosse
porzione dell'istessa sfera nella quale è posta la Luna,
appena sarebbe bastante a reflettere e produrre il cono
de' raggi reflessi insino in Terra, dove, uniti e
terminati nel vertice di detto cono, potessero ravvivare
il lume; il quale poi un sol punto o una minimissima
particella dell'emisferio terrestre occuperebbe, e quivi
solo farebbe la multiplicazione dello splendore,
superiore allo splendore terrestre, ma però tanto
languido, mercé della minima ed insensibile cavità
dello specchio, che il cercare di vederlo o vero di
ritrovarlo sarebbe un tempo vanissimamente speso. Anzi
pure, non potendo pervenire all'occhio del riguardante
salvo che nelle centrali congiunzioni de i tre centri
terrestre, lunare e solare, giammai da noi che siamo fuor
de' tropici, tale accidente non potrebbe esser
incontrato; essendo che impossibile cosa è il costituire
l'occhio nella medesima linea retta che li tre centri
sopradetti congiunge, l'occhio, dico, di un che fuora
della torrida zona, cioè de' tropici, sia costituito.
Vede dunque l'Altezza Vostra Serenissima come il discorso
matematico serve a schivare quelli scogli, ne' quali
talvolta il puro fisico porta pericolo d'incontrarsi e
rompersi.
Qui non posso non maravigliarmi alquanto di esser
portato io in testimonio contro a me medesimo, mentre
sento dirmi che io medesimo ho scritto, l'estremo limbo
della Luna mostrarsi più lucido che le parti di mezo. È
vero che io ho scritto che tali parti estreme sì
mostrano a prima vista più chiare che quelle di mezo; ma
immediatamente ho soggiunto, ciò in rei veritate esser
falso ed una illusione, e soggiunto che tutto il disco è
egualmente candido: ed il medesimo Autore nel capitolo
precedente registra puntualmente le mie parole, che sono:
«Dum Luna, tum ante tum etiam post coniunctionem, non
procul a Sole reperitur, non modo ipsius globus, ex parte
qua lucentibus cornibus exornatur, visui nostro
spectandum sese offert; verum etiam tenuis quædam
sublucens peripheria tenebrosæ partis, Soli nempe aversæ,
orbitam delineare, atque ab ipsius ætheris obscuriori
campo seiungere, videtur. Verum, si exactiori inspectione
rem consideremus, videbimus, non tantum extremum tenebrosæ
partis limbum incerta quadam claritate lucentem, sed
integram Lunæ faciem, illam nempe quæ Solis fulgorem
nondum sentit, lumine quodam, nec exiguo, albicare:
apparet tamen primo intuitu subtilis tantummodo
circumferentia lucens propter obscuriores Cæli partes
sibi conterminas; reliqua vero superficies obscurior e
contra videtur ob fulgentium cornuum, aciem nostram
obtenebrantium, contactum. Verum si quis talem sibi
eligat situm, ut a tecto vel camino aut aliquo alio obice
inter visum et Lunam (sed procul ab oculo posito) cornua
ipsa lucentia occultentur, pars vero reliqua lunaris
globi aspectui nostro exposita relinquatur; tunc luce non
exigua hanc quoque Lunæ plagam, licet solari lumine
destitutam, splendere depræhendet, idque potissimum, si
iam nocturnus horror ob Solis absentiam increverit; in
campo enim obscuriori eadem lux clarior apparet.» Or il
troncare le mie sentenze, portando, come da me detto
asseverantemente, quello che io nella prima parte
propongo per confutarlo poi nelle seguenti parole da me
poste, e far ciò forse per imprimere nell'animo del
lettore concetto tutto contrario a quello che io scrivo,
non saprei in altra maniera scusarlo, fuor che per una
scorsa di memoria.
Segue con altra instanza, dicendo: «Præterea, vel
ipse Clarissimus Galileus» etc, sino a «Insuper, si
Terra solare lumen in Luna» etc. Il signor Liceti con
grande accortezza trapassa sotto poche parole questa
instanza che egli mi fa contro, toccando solo una parte
del mio detto, onde il lettore, non sentendo la mia
sentenza intera, potria formarsi concetto che quello che
da me vien portato in altro proposito, serva per
confermare un'altra opinione, molto lontana da quella che
io tengo. È vero che io ho detto, tenere che possa
essere intorno aila Luna una parte del suo etere ambiente
più densa del resto dell'etere purissimo la quale possa
reflettere i raggi del Sole, illustrando l'estremo
margine del disco lunare: al che credere mi muove il
vedere nell'eclisse totale della Luna, doppo che ella sì
è immersa nell'ombra terrestre restare quell'estrema
parte del suo limbo che fu l'ultima a cadere nell'ombra,
restar, dico, alquanto illustrata, ma di un lume che tira
più al rame che all'argento, il qual colore non si
estende egualmente per il restante del disco lunare, che
resta molto più oscuro; e che finalmente, entrata la
Luna nel mezo dell'ombra, ella del tutto perde quel poco
che la faceva visibile, e noi alcune volte totalmente la
perdiamo di vista. Ora, che il signor Liceti inferisca,
che da quanto ho scritto si possa raccorre che io abbia
detto o conceduto che il candore, il quale grandissimo si
sparge per tutto il disco lunare nel novilunio, derivi
dal reflesso del Sole nell'etere ambiente la Luna, è
consequenza da me non pensata, non che detta; anzi di
presente stimata falsissima. E qui è bene che io tocchi
certo particolare degno di esser avvertito ed inteso.
Circonda perpetuamente l'etere, diciamo addensato, il
globo della Luna, intorno alla quale si eleva sino a una
certa altezza; sta la Luna esposta a i raggi del Sole, i
quali illustrano l'emisferio lunare insieme con
l'emisferio addensato e potente ad illuminare una parte
dell'emisferio lunare non tocco dai raggi del Sole; e tal
parte illuminata circonderà, a guisa di un anello, una
striscia della superficie lunare, che confina con
l'emisferio illuminato dai raggi solari; e questo anello
apporterebbe il lume crepuscolino nella Luna e da noi si
scorgerebbe, quando un altro lume molto maggiore non ce
lo offuscasse; e questo maggior lume è il reflesso della
grandissima faccia della Terra: sì che posto, per
esempio, che il reflesso terrestre abbia venti gradi di
luce, ma quello del reflesso dell'etere ambiente ne
abbia, verbigrazia, otto o dieci, chi crederà, potersi
distinguere tale anello lucido nella piazza tanto più
risplendente? Certo nessuno, salvo che chi volesse dire,
il reflesso dell'etere superare in candore quello della
Terra, il che è falso: imperoché quello che
nell'eclisse lunare rimane, somministratoli dall'etere
ambiente, è di lunghissimo intervallo inferiore al
candore del novilunio; che quando fusse prodotto
dall'istessa causa, dovrebbe molto e molto maggiore
mostrarsi nell'oscurità della notte, al tempo
dell'eclisse, che nello splendore del nostro crepuscolo,
come altra volta di sopra abbiamo detto. Aggiunghiamo di
più, che l'essere egualmente diffuso il candore per
tutto il disco lunare, ci assicura che egli non depende
dall'etere ambiente, il quale non è potente ad arrivare
nella parte di mezo del disco lunare; in quel modo che il
crepuscolo nostro non illumina tutto un emisferio
terrestre, perché se ciò fusse averemmo tutta la notte
il lume crepuscolino, dove che per la maggior parte della
Terra molte sono le ore notturne che restano senza
crepuscolo, nelle tenebre profondissime. In oltre, con
gran ragione possiamo credere che l'etere ambiente la
Luna non sia così atto a reflettere vivamente i raggi
del Sole sopra la Luna, come è l'ambiente nostro
vaporoso a ripercuoterli sopra la Terra. Imperochè,
essendo in universale la materia dell'etere celeste più
pura dell'elementare aerea, così è credibile che la
parte dell'etere condensato intorno alla Luna sia assai
men densa, ed in conseguenza men potente a reflettere,
che l'aere condensato, per la mistione de' vapori,
intorno alla Terra.
Che poi l'etere ambiente la Luna sia grandemente men
denso della parte dell'aria vaporosa che circonda la
Terra, posso io con chiara esperienzia far manifesto. I
vapori intorno alla Terra sono di maniera densi, che il
Sole posto vicinissimo all'orizonte illumina una
muraglia, o altro corpo opaco oppostogli, molto
debolmente in comparazione del lume che gli porgeva
mentre per molti gradi era sopra l'orizonte elevato; e
questa molto notabile differenza non può procedere, per
mio credere, da altro, se non che i raggi del Sole nel
tramontare hanno a traversare per lunghissimo spazio i
vapori che la Terra circondano, dove che i raggi del Sole
molto elevato per spazio più breve hanno a traversare i
vapori tra il Sole e l'oggetto opaco interposti: che
quando non ci fussero i vapori, ma l'aria fusse
purissima, l'illuminazione del Sole sarebbe sempre del
medesimo vigore, tanto da i luoghi sublimi quanto da i
bassi, tuttavolta che nelle superficie da essere
illuminate fussero con angoli eguali ricevuti. Onde,
tuttavolta che noi potessimo far paragone di due luoghi
posti nella Luna, all'uno de i quali i raggi solari
pervenissero passando molto obliquamente per l'etere
addensato intorno alla Luna, ed all'altro assai
direttamente si conducessero, cioè per breve spazio
camminassero per l'etere ambiente, e che noi scorgessimo
le illuminazioni di amendue essere eguali o pochissimo
differenti; senz'alcun dubbio potremmo affermare, l'etere
ambiente la Luna o nulla o pochissimo più essere
addensato che tutto il resto del purissimo etere. Ma tali
due luoghi frequentemente li possiamo vedere: imperoché,
posta la Luna intorno alla quadratura del Sole,
considerando il termine che dissepara la parte illuminata
da i raggi solari dall'altra tenebrosa, si veggono in
questa tenebrosa alcune cuspidi di monti assai distaccate
e lontane dal detto termine, le quali essendo illuminate
dal Sole prima che le parti più basse, benché i raggi
solari a quelle obliquamente pervenghino, nulladimeno lo
splendore e il lume di quelle si mostra egualmente vivo e
chiaro come qualsivoglia altra parte notata nel mezo
della parte illuminata. E pure alla Cuspide distaccata
pervengono i raggi solari, obliquamente segando l'etere
ambiente, che ad altri luoghi notati nella parte
illuminata direttamente o meno obliquamente pervengono;
segno manifesto, assai piccolo essere l'impedimento che
l'etere ambiente può dare alla penetrazione de' raggi
solari, ed, in conseguenza, assai tenue essere il lume
che da esso etere può la parte oscura della Luna
ricevere.
Passo alla seguente instanza: «Insuper, si Terra
solare lumen in Luna» etc. Poco fa il signor Liceti
acutamente stimò che io, contro all'intenzion mia,
corroborassi e confermassi una sua opinione, mentre io
m'ingegnava di confermarne un'altra mia, dalla sua molto
differente. Penso di essermi sincerato della inavvertenza
placidamente impostami: non so se con altretanta
evidenzia egli potrà sciogliersi da simile imputazione
che mi pare che se gli possa fare, del destruggere egli
una sua proposizione, mentre tenta di destruggere una
mia, attenente all'istesso proposito di che si tratta. È
la sua intenzione di voler provare, che il candore nel
disco lunare non dependa dal reflesso de' raggi solari
nella Terra, e dice «Se tal candore derivasse dal
reflesso della Terra, non si farebbe l'eclisse solare; ma
l'eclisse si fa adunque tal candore non procede dalla
Terra». Nell'assegnar poi la ragione, perché l'eclisse
non dovesse farsi stante tal candore nella Luna, dice che
ciò avverrebbe perché lo splendore o illuminazione di
quello rischiarerebbe le tenebre, che senza quello si
troverebbero nel cono dell'ombra lunare, e per esso in
una parte della superficie terrestre. Ora, per tor via
l'operazione di tal candore, bisogna tor via l'istesso
candore, e per conseguenza, quando segue l'eclisse solare
(la quale egli medesimo pure ammette seguire, e tanto
oscura quanto la profonda notte), dire che tal candore
non vi è: ma questo poi si tira dietro necessariamente
il dovere affermare, che l'etere ambiente la Luna non la
incandisce, conseguenza del tutto contraria a quella che
il signor Liceti ha creduto e scritto. Ed aggiungo di più,
che se giammai può esser potente il reflesso dell'etere
a ripercuotere i raggi solari sopra l'emisferio della
Luna, ciò farebbe egli massimamente, per essere allora
la Luna nella massima propinquità, anzi nell'istessa
puntuale congiunzione, col Sole; sì che da tutte le
parti dell'etere circunfuso si farebbe tal reflessione, e
perciò validissima. Il discorso dunque del Filosofo
Eccellentissimo non meno toglie la posizione mia che la
sua, posto però che egli direttamente proceda; ma la
verità è che ei non perturba né la sua né la mia
posizione, come appresso dirò. Dico dunque, che può
benissimo essere che si faccia l'eclisse del Sole per
l'interposizione della Luna, e che la oscurazione sia
tale che permetta il vedersi le stelle, e che il candore
nella Luna vi sia, e quanto più valido esser possa,
senza però esser potente a proibire tale eclisse, e che
finalmente nessuno di questi particolari favorisca o
pregiudichi all'opinione tanto di chi lo attribuisce e
giudica effetto del reflesso del lume terrestre, quanto
di chi lo attribuisce al reflesso dell'etere ambiente la
Luna. Imperoché già convenghiamo che il candore vi sia
nel tempo dell'eclisse solare; tal che se ei fusse
potente a vietare l'eclisse, tanto la vieterebbe
derivando egli dalla Terra, quanto dall'etere ambiente la
Luna: ma il volerlo far poi così efficace, che ci possa
supplire al lume primario del Sole, sì che il cono
dell'ombra lunare non possa macchiare ed oscurare quella
parte della superficie terrestre che il medesimo cono
ingombra, è veramente troppo gran domanda. Signore
eccellentissimo, quel lume che in tale occasione può
scorgersi in Terra, è un quarto, procedente dal primo
dell'istesso Sole: il quale primo illumina l'ambiente
della Luna, e questo secondo illumina il disco lunare, il
quale come terzo, ha da illuminare la Terra onde il
volere che questi, terzo compensi il primo, è veramente,
come ho detto, domanda troppo ardita. Il dir poi che
questo terzo lume, benché debile, accoppiato col massimo
primario non lo indebolisca, lo concederei io
liberamente, quando tal copula si facesse: ma la
adombrazione che si fa in Terra è terminata e compresa
dal cono dell'ombra lunare, per il quale cono non passano
i raggi solari, ma sì bene quelli solamente del candore
della Luna: sì che alla parte della Terra ottenebrata e
macchiata dall'ombra lunare niente vi arriva di
splendido, fuorché il reflesso del candore, cioè un
reflesso di un altro reflesso di un altro reflesso,
derivante da i raggi primarii del Sole, dei quali nessuno
entra nel cono dell'ombra lunare a mescolarsi con quel
lume tenuissimo che dal candore della Luna per entro il
suo cono si va diffondendo. Che poi il corpo lunare
densissimo, né sparso di maggior lume che quello del suo
candore, possa indurre tal eclisse nel Sole, che le
diurne tenebre permettano la vista delle stelle, non
doverebbe molto favorire il discorso del signor Liceti
mentre che egli afferma, essersi anco nell'aperto cielo,
e nella maggior limpidezza del Sole, vedute stelle: e
communemente non son elleno le costituzioni del
crepuscolo e dell'aurora, di lume benché tanto
diminuito, che permettono vedersi gran copia di stelle? E
finalmente, chi dà tanta sicurtà all'eccellentissimo
signore che ei possa resolutamente pronunziare che nel
tempo della totale eclisse del Sole non si scorga il
candor della Luna? Bisognerebbe che ei producesse
testimonii degni di fede, li quali deponessero avere
attentamente osservato e ricercato se tal candore si
vegga, ed asserito poi non si vedere; ma non so che egli
potesse trovare una tal testimonianza: ma ben più tosto,
all'incontro, può essere che da alcuno vi sia stato tal
candore veduto, il quale, ignorando la vera cagione del
reflesso della Terra, abbia creduto, il corpo della Luna
esser in parte trasparente ed atto ad esser penetrato, ed
in qualche modo illuminato, da i raggi solari. Ma che
tale trasparenza non sia nel globo lunare, ho io in altro
luogo assai concludentemente dimostrato, ed in
particolare dal vedersi manifestissimamente, scogli sopra
la Luna, piccolissimi in comparazione di tutto il suo
globo, spargere ombre oscurissime; argumento
necessariamente concludente, la materia lunare, né anco
di minima profondità, esser diafana. Se dunque è stato
veduto nella totale eclisse la Luna alquanto lucida, e
perciò stimata trasparente, questo non poteva derivare
se non dal reflesso dell'emisferio terrestre, dal Sole
illuminato, del quale solo restando piccola parte
ottenebrata dal cono dell'ombra lunare, il rimanente, cioè
la parte grandissima, ben continuava di conservare il
candore nella Luna. Quanto poi a quello che il signor
Liceti scrive, che un corpo lucido minore, congiunto con
un lucido maggiore, non impedisce la sua illuminazione;
per dichiarazione di che egli induce una fiaccola o una
maggior famma ardente, copulata coi raggi del Sole, o
vero due specchi, nel minor dei quali, collocato nei
raggi solari da un altro maggiore siano reflessi i
medesimi raggi, niente leva la illuminazione alla vista;
qui liberamente confesso la mia incapacità, e duolmi
assai di non poter cavare costrutto dal discorso che qui
vien portato, il quale stimo che sia pieno di ben salda
dottrina, e duolmi di non poterne esser partecipe:
concederò bene il tutto, se però l'intenzione
dell'Autore è stata quella che io conietturalmente posso
imaginarmi.
Dico adunque che interamente presterò il mio assenso,
che sopraggiungendo ad un gran lume un lume minore,
detrimento nessuno può ad esso maggiore sopravenire
dalla aggiunta del minore, tuttavolta che questo minore
sia schietto e puro, e non congiunto con qualche corpo
opaco, il quale con la sua opacità sia potente a
impedire la strada per la quale viene il maggior lume. Mi
dichiaro, stando nei medesimi termini dei quali si tratta.
Intendasi la Luna, corpo densissimo, tenebroso per sé
stesso e niente trasparente, esser interposta tra il Sole
e la Terra: qui non è dubbio alcuno che ella
all'opposito del Sole distenderà verso la Terra il cono
della sua ombra, macchiando di tenebre tutta quella parte
della terrestre superficie che resterà compresa dentro
il cono dell'ombra lunare; e se altronde non gli
sopraggiugne qualche altra illuminazione, tal macchia sarà
oscurissima. Intendasi ora sopraggiugnere nella faccia
della Luna, esposta alla vista della Terra, un tal qual
si sia lume: se questo sarà potente quanto il lume
dell'istesso Sole, senza dubbio caccierà le tenebre, e
ridurrà tutto l'emisferio terrestre egualmente in
ciascuna sua parte illuminato; ma se il sopravenente lume
nella Luna sarà debole e quale è il suo candore in
comparazione dell'istesso Sole qual lume potrà egli
arrecare alla macchia scura cagionatavi dal corpo
opacissimo di essa Luna? certo che molto piccolo. E
quello che il signor Liceti dice del lume reflesso da uno
specchio maggiore in un minore e da questo minore in un
altro oggetto illuminato da' primarii raggi del Sole, e
che questo lume reflesso non impedisca l'illuminazione
del Sole, ciò sarebbe vero, quando questo minore
specchio fusse non di materia densa ed opaca, sì che
potesse, col proibire il transito a i raggi solari,
produrre ombra, ma di un cristallo limpidissimo e
trasparentissimo; ma quando fusse tale, né si
illuminerebbe, né farebbe reflessione de' raggi che
altronde gli sopraggiugnessero e lo ferissero. Per esser
dunque il corpo lunare impenetrabilissimo da i raggi del
Sole, produce ombra oscurissima in Terra, la quale viene,
ma molto debilmente, diminuita dall'opposto nostro lunar
candore.
Segue l'argumento tolto dall'apparizione di Venere di
giorno, nelle seguenti parole: «Deinceps, quum Solis
vicinia nihil impediat» etc.; e continuando pur
nell'instituto di voler dimostrare che il candor della
Luna non depende dal reflesso della Terra, premette le
seguenti proposizioni. Prima, che il lume di Venere è
tanto vivo, che la vicinanza del Sole, anco di mezo
giorno, non l'offusca sì che vedere non la possiamo;
anzi pure si scorge ella splendida, benché minore di
quello che ella si mostra nelle tenebre della notte. Pone
l'altra proposizione, la quale è che io affermo, la
Terra non venire illustrata dal Sole manco che
qualsivoglia pianeta, ed in conseguenza non meno che
Venere. Aggiugne la terza proposizione, pur da me creduta
e concessa, la quale è che il reflesso del lume
terrestre sopra la Luna sia più illustre di quello che
la Terra riceve dalla Luna. Le quali premesse io
liberamente concedo tutte, ma non so poi dedurne la
conclusione che il mio oppositore ne cava; cioè che da
tali premesse ne segua in conseguenza, che la Luna
prossima alla congiunzione del Sole dovesse, non meno che
Venere, mostrarsi splendida nel mezo giorno. Io, per me,
dalle due prime premesse, cioè dall'esser la Terra non
meno illustrata dal Sole che Venere, e dal vedersi Venere
di giorno, non saprei dedurne altri, se non che la Terra,
non meno che Venere, dovrebbe esser visibile di giorno;
conseguenza tanto vera, che non credo che alcuno vi ponga
dubbio, ed io più d'ogni altro l'affermo. Dall'esser poi
il reflesso del lume terrestre più gagliardo sopra la
Luna che quel della Luna sopra la Terra, non capisco come
ne debba seguire che il candor della Luna debba essere
non inferiore allo splendore di Venere, procedente
dall'illuminazione dei raggi primarii e diretti del Sole;
e se tal consequenza dovesse aver luogo contro di me,
converrebbe che il mio oppositore facesse constare che io
avessi creduto e scritto che lo splendore della Terra
fusse eguale allo splendore dell'istesso Sole, cosa che
io giammai non ho detta, né pur pensata. Restano dunque
verissime le premesse da me concedute, come vera anco la
consequenza che da quelle direttamente si può dedurre,
cioè che lo splendore di Venere è tanto superiore al
candor della Luna, quanto i vivi e primarii raggi solari
sono più illustri che i reflessi dalla superficie
terrestre. E qui se alcuno logico volesse ridurre questo
argumento in forma sillogistica, dubito che non pure ei
incontrerebbe il quarto termine, ma anco il quinto.
Imperoché né della Terra, come causa illuminante, né
del candor della Luna, come effetto della illuminazione
della Terra, niente si è parlato nele premesse; onde il
dedurre che la Luna incandita dalla Terra dovesse vedersi
di giorno, è conclusione sospesa in aria e che nulla ha
da fare con la illuminazione del Sole sopra Venere e la
Terra e con l'esser rese per ciò visibili di mezo giorno.
In troppo oscura maniera veramente si deduce che la Luna,
incandita dalla Terra, debba vedersi di mezo giorno ex
quod Venere, illustrata dal Sole, di mezo giorno si
scorge.
Passiamo all'altra seguente obiezione: «Amplius, in
eclipsi lunari nullam, prorsus» etc. Quanto egli qui
dice, gli concedo, cioè che nell'eclisse totale della
Luna ella non riceva illuminazione alcuna dalla Terra,
nella cui ombra ella resta immersa, né tampoco goda de i
raggi diretti del Sole, i quali nel cono dell'ombra
terrestre non penetrano; e finalmente gli concedo che il
reflesso dell'etere ambiente la Luna gli porge quel poco
di rossigno che la rende visibile, spezialmente in quella
parte del suo limbo che è l'ultima a restar coperta dal
cono dell'ombra terrestre: ma tutto questo, niente veggo
che debiliti il mio detto, che il candore della Luna
venga dalla Terra. Parmi bene di scorgere che il mio
oppositore accortanmnte cerchi di imprimere nella mente
del lettore, che lo abbia largamente conceduto, il
medesimo candore essere effetto dell'etere ambiente la
Luna, il che manifestamente apparisca mentre che
nell'eclisse lunare, mancando il reflesso della Terra, e
l'illuminazione de i raggi dlretti del Sole io ammetto
quel tenue splendore bronzino che in parte della Luna si
scorge; e perché questo è sommamente inferiore al
candore argenteo nel novilunio, vorrebbe farlo diminuito
ed in gran parte ammorzato dal dover passare egli per il
cono dell'ombra terrestre: il quale effetto io
asseverantemente dico esser vano e falso atteso che la
illuminazione di un corpo splendido che va ad illustrare
un corpo opaco, niente perde nel dover passare per un
mezo diafano quanto si voglia sparso di tenebre; anzi le
medesime tenebre faranno apparire più vivamente il
ricevuto lume, cosa tanto chiara e nota che assai mi
maraviglio di sentirla passare come ignota o non
avvertita: ché ben sa il medesimo signor Liceti che
tutti i lumi celesti che a noi si fanno visibili e
spargono di qualche luce l'emisferio terrestre nella
profonda notte, passano per il medesimo cono dell'ombra
terrestre, e da quello acquistano vigore di maggiormente
illuminarci e farcisi visibili. Concedesi dunque, la
tintura di rame derivare dall'etere ambiente la Luna:
dove anco non mi par necessario di porre nel corpo lunare
quel tenue lume nativo, da mescolarsi come stima il
signor Liceti con questo reflesso dell'ambiente. Imperoché,
se quello vi fosse, nel mezo della massima eclisse,
quando il centro della Luna cade nell'asse del cono
dell'ombra, pure resterebbe essa Luna in qualche modo
visibile mercé del suo proprio nativo lume: tuttavia io
e molti altri insieme abbiamo del tutto perduto di vista
il disco lunare in più di una delle totali eclissi.
Vengo finalmente all'ultima instanza: «Denique, nec
illud omittam data positiones» etc. Continuando il
signor Filosofo in volere in ogni maniera scuoprire
l'impossibilità della mia opinione, s'ingegna di
dimostrare come il reflesso della faccia terrestre in
nessuna maniera può arrivare alla Luna; e per ciò
dimostrare, introduce molte proposizioni da non esser da
me così di leggiero concedute. E cominciando da questo
capo, certo mirabil cosa è che i caldissimi e
lucidissimi raggi solari, reflessi dalla Terra, e più
incontrandosi ed unendosi con i primarii incidenti, come
l'istesso signor Liceti afferma, non siano potenti a
valicare la grossezza della media regione dell'aria ad
essa vicinissima, ammortiti dalla frigidità di quella,
la qual grossezza non arriva alla lunghezza di un miglio;
e che poi i reflessi dalla Luna, distante dalla medesima
media regione fredda assai più di cento mila miglia, ed
anco soli e non accompagnati dai diretti raggi solari
siano potenti a mantenersi così lucidi e caldi, che
trapassando per quella abbiano forza di riscaldare l'aria
contigua alla Terra ed al mare, per il qual calore le
conchiglie testate, fomentate dal caldo dell'ambiente,
possano più pienamente nutrirsi ed ingrassarsi. Ma che
dallo ingrassamento di questi animali si possa
argumentare augumento di calore nell'ambiente che li
circonda, parmi, se io non erro, che con altrettanta o più
ragione se ne potrebbe inferire accrescimento di
freddezza, mentre che generalmente si scorge in tutti gli
altri animail far miglior digestione, e più copiosamente
cibarsi ed ingrassarsi nell'arie freddissime che nelle
tiepide o calde: per lo che si può inferire, la
grand'illuminazione della Luna nel plenilunio accrescere
appresso di noi più tosto la frigidità che il calore, e
tanto più, che è tritissima e popolare osservazione, ne
i tempi che l'acque si congelano farsi i ghiacci
notabilmente maggiori nelle notti del plenilunio, che
quando il lume della Luna è diminuito. Ma ben so io che
quello augumento di calore interno dell'animale, che il
signor Liceti riconosce dall'accoppiamento del calore
esterno dell'ambiente, qualche altro filosofo non meno
confidentemente lo attribuirebbe al maggior freddo
dell'ambiente, il quale per antiperistasi facesse
concentrare il nativo calore interno.
Né devo qui tacere un'altra meraviglia non minore,
che pure in questa maniera di filosofare si esercita; ed
è che talvolta si assegnano per produrre il medesimo
effetto cause tra loro diametralmente contrarie, né meno
in altre occasioni si pone la medesima causa produrre
effetti contrarii. Quanto al primo caso, ecco
dell'istessa più forte digestione addursi per causa da
alcuni il caldo dell'ambiente, e da altri il freddo.
Quanto all'altro caso, il signor Liceti afferma qui, il
medesimo lume di Luna esser caldo il quale in altro luogo
asserì esser freddo, come si legge nelle seguenti parole
poste nel libro De novis astris et cometis, alla
faccia 127, versi 7: «Quin et lumen lunare nullo calore
pollere, sed frigiditatem invehere, quilibet experitur.»
Né forse è minor la contrarietà che il medesimo
signore pone nel mezo ombroso, o vogliamo dire nel cono
dell'ombra terrestre; il quale egli non nega che talvolta
molto più splendidi ci mostri gli oggetti luminosi,
mentre il lume loro deve trapassare per esso; ed altra
volta pronunzia, il medesimo cono, mescolandosi con quel
tenue lume della Luna prodotto dal suo etere ambiente e
congiunto col suo nativo, l'offusca e rende men chiaro. E
qui si scorge la sicurezza del puro fisico argumentare,
poiché egualmente si adatta a render ragione di uno
effetto tanto per una causa naturale, quanto per la
contraria. Oltre a ciò, non veggo con qual confidenza
possino gli accuratissimi signori filosofi fare il cielo
e i corpi celesti soggetti a qualità ed accidenti di
caldo e di freddo, mentre gli predicano per impassibili,
inalterabili ed esenti da queste qualità elementari, sì
che, partendosi i raggi dal corpo lunare, che pure è
celeste, possano esser caldi e tali mantenersi nel
trapassare quella parte del cielo della Luna che termina
sopra la sfera elementare, e quindi ancora scorrere per
il fuoco e per tutta la più alta regione dell'aria, e
passare ancora di più la media freddissima,
conservandosi sempre caldi: e che poi, all'incontro, il
reflesso della Terra, la quale pur troppo sensatamente
sentiamo riscaldarsi e quasi direi infiammarsi nel più
ardente sole dell'estate, non esser bastante a trapassare
la a sé vicinissima media regione, la cui sublimità,
come ho detto, non arriva a un miglio di spazio, sì come
il breve intervallo di tempo che tra il lampo del baleno
ed il romor del tuono intercede, sicuramente ci insegna:
oltre che, se si deve prestar fede a gli istorici, né le
piogge, né le nevi, né le grandini, né i lampi, né i
tuoni, né i fulmini, si fanno in maggior lontananza,
mentre si dice, constare per la esperienzia, esser monti
tanto eminenti, che la loro più eccelsa parte non è
giammai offesa dai nominati insulti; e bene molto alto
conviene che sia quel monte la cui perpendicolare altezza
sia più di un miglio. Lascio stare che frequentemente si
vede che dalla eminenza delle nostre più alte montagne
si scorgono le pianure suggette, ed anco le minori
colline, ricoperte da nuvole, sì che tal vista sembra
quasi un mare nel quale in qua ed in là si scorgano
surgere, quasi scogli, vertici di altri mediocri
monticelli; ed in questa constituzione di nuvole cade
talvolta la pioggia nelle pianure più basse.
Parmi, oltre di questo, di raccorre dal discorso del
mio oppositore, che egli voglia mandar di pari lo
scaldare e l'illuminare, sì che dove non arrivi il
calore del corpo caldo e lucido, non vi deva anco
arrivare l'illluminazione, e che però, non sendo
possente il caldo che noi proviamo grandissimo nella
Terra illuminata e riscaldata dal Sole, a varcare la
fredda regione vaporosa dell'aria, né meno ciò possa
fare il lume dalla medesima Terra reflesso. Tuttavia, se
noi vorremo prestar fede al senso ed alla esperienza,
troveremo che il lume di una grandissina fiamma di
quantità grande di paglia o di sterpi che sopra una
montagna abbruci, si distenderà ed arriverà a noi
constituti in molto maggior lontananza di quella nella
quale il caldo di essa fiamma ci si facesse sentire. Ma
che accade che, per assicurarci del poter esser la strada
del caldo differente da quella del lume, ricorriamo a
fiamme poste sopra montagne, o ad altre esperienze più
incommode a farsi? Accosti chi si voglia il dito così
per fianco alla fammella di una candela accesa; certo non
sentirà offendersi dal caldo, sinché per un brevissimo
spazio non se gli accosta e che poco meno che non la
tocchi: ma, per l'opposito, esponga la mano sopra la
medesima fiammella; sentirà l'offesa del caldo in
distanza ben cento volte maggiore di quell'altra per
fianco: tuttavia l'illuminazione che dalla medesima
fiammella deriva, per tutti i versi si diffonde, cioè in
su, in giù, lateralmente, ed in somma per tutto, ed in
lontananza più di cento mila volte maggiore,
sfericamente si distende.
Parmi per tanto di poter sicuramente dire che lo
scaldare e l'illuminare non vadiano del tutto con pari
passo: ma ben credo di poter con sicurezza affermare, che
l'illuminare ed il muover la vista vadano talmente
congiunti, che dovunque arrivi il lume, di quivi si renda
il corpo luminoso visibile; di maniera che il muovere il
senso della vista, altro non sia che illuminare la
pupilla dell'occhio, alla quale quando non pervenisse il
lume, l'oggetto lontano, benché luminoso, veder non si
potrebbe. Quando dunque conforme a quello che scrive il
signor Liceti, il reflesso del lume terrestre, come
quello che, per suo detto, va di pari col calore, non si
estendesse oltre alla media regione dell'aria, resterebbe
in conseguenza la Terra invisibile dall'occhio posto
oltre alla detta media regione, come che quivi non
arrivasse il lume, che solo è potente a fare il corpo
luminoso visibile; ed in oltre parte alcuna della Terra
non verrebbe da noi veduta la quale più di un miglio o
due ci fusse remota, ché oltre a tale altezza non si
estende la grossezza della media regione dell'aria. Ma io
difficilmente potrei accomodar l'intelletto al prestar
assenso a una tal proposizione e massime mentre che il
senso mi rende visibili pur piccole parti della Terra
illuminata in lontananza di più di cento miglia, avvenga
che da un luogo molto alto si scorgeranno altre montagne
ed isole non meno che cento miglia lontane; e la Corsica
e talora la Sardigna ben si veggono dai colli intorno a
Pisa, e più distintamente ancora dalli scogli
eminentissimi di Pietrapana; e da i monti della Romagna
ben si scorgono, oltre al sino Adriatico, quelli della
Dalmazia. E sì come noi qui di Terra vegghiamo la Luna
luminosa così tengo per modo sicuro che dalla Luna e
grandissima e luminosissima si scorgerebbe la Terra, in
quella parte dai raggi solari illustrata, ed in
conseguenza che la medesima Luna da essa Terra verrebbe
illuminata.
Ma passo ad una proposizione forse molto a proposito
per il mantenimento della mia opinione, e per la quale
nel medesimo tempo si scorga, non piccola esser la
differenza tra l'illuminazione ed il riscaldamento dei
raggi solari. E prima, l'illuminazione si fa in un
istante; ma il riscaldare non così, ma ci vuol tempo e
non breve: e parimente, all'incontro, si toglie via
l'illuminazione in un istante: ma non si estingue il
conceputo caldo se non con tempo. Non molta si ricerca
che sia la densità della materia per potere essere
egualmente illuminata come qual si voglia densissima;
onde veggiamo bene spesso tenui nugole non meno vivamente
illuninate da i raggi solari, che se fussero vastissime
montagne di solidi marmi; e bene possiamo noi chiamar
piccola la densità di tali nugole in rispetto a quella
di una montagna di marmi, ancorché la medesima densità
sia molto grande in comparazione di quella dell'aria
vaporosa, mentre che la medesima nugola, se fusse
interposta tra il Sole e noi, ci torrebbe la vista di
esso, cosa che non la fa l'aria vaporosa. Ma,
all'incontro, quanto al concepire il caldo, massima si
trova la differenza tra le materie di diversa densità;
ché molto più si scaldano i densi metalli e le pietre,
che il men denso legno o altre materie più rare.
L'illuminazione, oltre al farsi in instanti, si estende
per intervallo dirò quasi che infinito, ché ben tale si
può chiamare quello delle innumerabili piccolissime
stelle fisse, le quali, essendo dalla vista nostra libera
impercettibili, pur visibili si rendono con l'aiuto del
telescopio; argumento necessario che l'illuminazione di
quelle sino a Terra si conduce, ché se ciò non fusse
vero, tutti i cristalli del mondo visibile non le
renderebbono: non so poi se il caldo loro in altrettanta
lontananza così sensibile possa rendersi. Non piccola
dunque è la differenza tra l'illuminare e lo scaldare:
tuttavia amendue tali impressioni non si vede che possano
essere ricevute se non in materie, come si è detto, che
ritengano qualche densità: ché le tenuissime, rarissime
e diafanissime, quali si tiene che siano l'aria pura e
l'etere purissimo, veramente non si illuminano né si
riscaldano, effetto che anco dalla esperienza ci può
esser dimostrato, ancorché far nulla possiamo né nel
purissimo etere né nell'aria schietta e sincera,
avvengaché nella mista e turbata da i vapori
continuamente ci ritroviamo. Tuttavia in questa ancora
gli effetti dello illuminarsi e scaldarsi non si veggono
esser se non debolissimi, come chiaramente ci mostrano i
raggi solari dal sopradetto grande specchio concavo
ripercossi, i quali né illuminano né scaldano l'aria
compresa dal cono, come di sopra si è dichiarato. Che
poi né l'aria pura né il purissimo etere si iiluminino,
ce lo mostrano le profonde notti: imperoché, non
restando di tutto l'elemento dell'aria altro non tocco
dal Sole che la piccola parte compresa dentro al cono
dell'ombra della Terra, e talvolta qualche altra minor
particella ingombrata dalle ultime parti del cono
dell'ombra lunare, sicuramente quando tutto il restante
fusse illuminato, averemmo un perpetuo crepuscolo, e non
mai profonde tenebre.
Concludo per tanto, che non si imprimendo il caldo,
mercé de' raggi solari, se non in materie solide, dense
ed opache, o che almeno partecipino tanto di densità che
non diano il transito totalmente libero ai medesimi raggi
solari, il caldo che noi proviamo è quello che la Terra
e gli altri corpi solidi riscaldati ci somministrano; il
qual calore può esser che non si elevi tanto sopra la
Terra che possa tor via la freddezza di quella regione
vaporosa nella quale si generano le pioggie, le nevi e le
altre meteorologiche impressioni. Può dunque il calore
del reflesso de' raggi solari nella Terra non
transcendere la media regione vaporosa e fredda, ma ben
l'illuminazione trapassar questa ed arrivare sino alla
Luna, e per distanza anco molte e molte volte maggiore.
Oltre che, se io devo liberamente confessare la mia
poca scienza fisica, dirò di non sapere né intender
punto come tali impressioni si faccino; e quando io mi
ristringo in me medesimo per vedere se io potessi
penetrarne alcuna, mi ritrovo in una immensa oscurità e
confusione. Io non ho mai inteso, né credo di esser per
intendere, in qual maniera, doppo essere stati mesi e
mesi senza pur vedersi una nuvola, possa improvvisamente
in brevissimo tempo spargersene sopra un gran tratto di
terra, e quindi precipitosamente cadervi milioni di
barili di acqua; ed altra volta comparire altre simili
nugole, e poco dopo dissolversi senza diffondere una
minima stilla. Che io intenda per fisica scienza come tra
le tenui e molli nuvole si produchino suoni e strepiti
così immensi quanto sono i tuoni, mentre che il filosofo
vuol che io creda, alla produzion del suono esser
necessaria la collisione de' corpi solidi e duri, absit
che io ne possa restar capace. Ma per non entrare in un
pelago infinito di problemi a me insolubili, voglio far
qui fine, senza però tacere la veramente ingegnosa
comparazione che lo eruditissimo signor Liceti, dirò,
con leggiadro scherzo poetico, pone tra la Luna e la
pietra lucifera di Bologna; cioè che essa Luna,
immergendosi nell'ombra della Terra, conservi per qualche
tempo la tenue luce imbevuta o dal Sole o dall'etere suo
ambiente, la qual luce svanisca dopo qualche dimora
nell'ombra. Io veramente ammetterei questo pensiero, se
non ni conturbasse la diversa maniera che tengono nel
recuperare la luce smarrita e la Luna e la pietra:
imperocché la Luna nello allontanarsi dal mezo del cono
dell'ombra comincia a recuperare quello smarrito lume
molto prima che ella scappi fuori dell'ombra e torni a
godere di quel maggior lume dal quale ella fu
ingravidata; effetto che non così accade nella pietra,
alla quale per concepire il lume non basta l'avvicinarsi
a quel maggior lume che ha da illustrarla, ma le bisogna
per assai spazio di tempo soggiacergli, e così concepire
la luce, da conservarsi poi per altro breve tempo nelle
tenebre.
Circa quello che in ultimo soggiugne, del farsi
l'ombre maggiori dal Sole basso che dall'alto, non ho che
dirci altro se non che mi pare che egli altra volta
negasse cotale efetto, ma che pure, benché falso,
stimava di poterne render ragione non meno che se fusse
vero, come egli con assai lunga ed accurata scrittura
fece. E qui parimente si scorge la gran fecondia delle
fisiche dimostrazioni, delle quali non ne mancano per
dimostrare tanto le conclusioni vere quanto le false. Ma
nel presente caso, se le ragioni addotte son concludenti,
è necessario che la conclusione sia vera: e se è vera,
perché negarla o metterla in dubbio? e se le ragioni
prodotte non son concludenti, perché produrle?
So, Serenissimo Principe, che troppo averò tediata
l'Altezza Vostra con questo mio lungo discorso; ma il suo
benigno invito, e la necessità che avevo di sincerarmi
appresso il mondo e purgarmi dalle imputazioni
attribuitemi da questo famoso filosofo, mi hanno porto
libertà di fare quello che ho fatto. E se bene il signor
Liceti publicando con le stampe, ha contro di me parlato
con tutto il mondo, voglio che a me basti il portar le
mie difese nel cospetto solo dell'Altezza Vostra
Serenissima, il cui assenso agguaglio a quello di tutto
il mondo; benché io non possa negare che riceverei anche
per mia gran ventura se le fussero sentite o lette da i
filosofi e letterati di cotesta fioritissima Accademia,
da i quali spererei aver assenso ed applauso alle mie
giustificazioni, poiché esse non procedono contro alla
peripatetica filosofia, ma contro ad alcuno di quelli i
quali la filosofia e la aristotelica autorità oltre a i
limitati termini vogliono estenderla, e con essa farsi
scudo contro alle opposizioni di qualsivoglia altro che
pur razionabilmente discorra. Del guadagnarmi poi
l'assenso di tutti i filosofi di cotesta Accademia, gran
caparra me ne porge l'eccellentissimo signor Alessandro
Marsilii, della cui graziosissima conversazione ho, non
molti anni sono, goduto per cinque mesi continui che mi
trovai in Siena in casa l'illustrissimo e reverendissimo
Monsignore Arcivescovo Piccolomini, dove giornalmente
avemmo discorsi filosofici. Questo signore in particolare
nomino io all'Altezza Vostra Serenissima per la lunga
pratica che ho avuta con Sua Signoria eccellentissima; e
come da questo mi prometto l'assenso, così me lo
prometto da ogni altro che con occhio sincero vorrà
riguardare le imputazioni fattemi e le mie difese. E qui
umilmente inchinandomeli, le bacio la veste, e le prego
da Dio il colmo di ogni felicità.
Di Arcetri l'ultimo di Marzo 1640.
Dell'Altezza Vostra Serenissima
Umilissimo e Devotissimo Servitore
Galileo Galilei

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